Antigone: l’Eroa

Eccola qui: rinvengo con la stagione delle streghe e delle nebbie, rispunto come una zucca. Probabilmente devo essere conservata all’ombra e sotto i 25 gradi per riuscire a funzionare. Sotto zero sarebbe ideale, ma non credo siano più temperature esistenti nel nostro emisfero ormai…ripartiamo allora con questo spirito di allegria e positività!

Innanzitutto ti dico che stanno arrivando delle cose qui sul blog. Che non è rimasto in stato di abbandono, era una specie di chiusura stagionale.

Ma! (ditino per aria verso il cielo) in questi mesi ho pensato che vorrei crearci, qui, una struttura più lineare, una linea del tempo per poter guardare ordinatamente all’evoluzione del pensiero, così che se ci vengono delle domande tipo: ma nell’antica Roma come venivano raccontate le figure femminili? Oppure…nel XXsecolo le cose sono migliorate? scorriamo gli articoli, e troviamo qualcosina. E adesso mi dirai: mbè, ma non è quello che stavi già facendo?

Meh, meh…non esattamente, nel senso che per un po’ mi son detta che il punto fosse lavorare sui pilastri, quelle cose che per forza almeno un pochino praticamente tuttə conosciamo o abbiamo sentito. Invece ora penso che sarebbe più bello lavorare per evoluzioni, o involuzioni…non lasciare buchi temporali, non trascurare lo scorrere del tempo…insomma, forse diventerà più chiaro man mano…

Per adesso, andiam! Quindi ciao! Ben ritrovatə, grazie di essere qui!

Spariamoci subito un pug autunnale per festeggiare:

CHICCHIRINO!!!!!

E adesso, se ti va, e ti prometto che farò del mio meglio per non sfornarti un immondo pippone, ripartiamo con ordine:

Per tracciare un’andamento che dia forma al pensiero umano occidentale, quello in cui sono nata e cresciuta e la cui cultura ha formato il mio sguardo e pensiero, partirei dal Mito, ok? Dalla mitologia come abbiamo visto qui e continuato qui. Prima, risulta difficile reperire materiale, diciamo.

Dopo il Mito, che è la tradizione orale della costruzione del modello, degli archetipi, il pensiero si evolve e dalla mitologia nasce la Tragedia. La Tragedia greca.

Siamo indicativamente nel VI secolo a.c. ad Atene.

Con a.c. si intende Avanti Cristo, prima di Cristo e cioè dell’adozione su scala massiva in quello che oggi definiamo perlopiù occidente, della tradizione cristiana. Lo so che tantə lo sanno, ma magari per alcunə queste diciture sono sempre rimaste complesse, e a me piace l’idea che qui, visto che non ci sente nessuno, ci possiamo svelare tutto senza giudizio per cercare di capirlo davvero e senza ansia da prestazione. E poi forse, è un modo che abbiamo sempre dato per scontato: avanti Cristo – dopo Cristo. Facile. Ma cosa significa davvero?

Oggi siamo nel 2022 perché indicativamente 500 anni dopo la scrittura delle grandi Tragedie, è il momento in cui la chiesa cristiana riconosce l’avvento del suo messia Gesù Cristo, che azzera il tempo: l’anno dell’avvento del Cristo è l’anno ZERO. Prima di lui il nulla, il caos, l’assenza di verbo, l’assenza di pensiero e di civiltà. Questo è il senso dietro l’azzeramento del tempo da parte della chiesa cristiana d’occidente. Si riparte da qui: si comincia con il verbo del Cristo, figlio unico e maschio di un unico dio, maschio. E se per qualche ragione il termine femminista ti suona in qualche modo negativo, ti voglio rassicurare che la questione del figlio maschio del Dio maschio non è un questione femminista ma antropologica, cioè significativa ai fini della comprensione della cultura e del comportamento di un gruppo di umani, e che la troverai su quasi tutti i libri di antropologia delle religioni. Insomma l’assunzione della cultura cristiana su scala massiva, si associa al concetto di controllo e disciplina. Questo è il senso di tutte e tre le grandi religioni monoteiste: imporre un controllo, un ordine sociale, insegnare per esempio delle nozioni basilari per il contenimento delle malattie. Da qui i vari precetti sui diversi tipi di carni o pesci e la loro conservazione o preparazione, la carne halah, il cibo kosher, sulla monogamia, il divieto dell’incesto, da qui il concetto di peccato. Il motivo per cui bisogna lavarsi le mani prima di toccare il Corano per esempio, è che in questo modo, imponendo un monito divino, si imponeva alla gente di lavarsi le mani almeno tre volte al giorno, e questo, come abbiamo imparato, è un bel taglio al diffondersi dei virus. Tenete conto che la stragrande maggioranza della popolazione all’epoca era analfabeta, ed essere analfabeta non implica solo il non essere in grado di affrontare lettura e scrittura, ma anche il mancato allenamento e sviluppo sviluppo della capacità di elaborare concetti complessi, insiemi stratificati di deduzioni logiche, l’analfabetismo funzionale. Le religioni questo lo capiscono e il modo che trovano per ovviare a questo problema è una forma di governo basata non sulla trasmissione e sulla verifica costante dei fatti, cioè sulla scienza, ma sulla paura, sui deterrenti come demoni, inferni, dannati, e sui dogmi, le regole assolute, divine: non si discute su ciò che è divino. L’arrivo delle grandi religioni insomma esclude la natura, l’istinto. Tutto è solo com’è scritto. Niente caos. Niente animali, stelle, fiori e baccanali. Solo il Dio e l’uomo.

E’ paradossale se ci pensate, che nel tempo proprio il contronatura sia diventato il principale nemico di questa religione che ha reso l’annichilimento e la mortificazione di ogni forma di istinto e slancio, il proprio baluardo.

Insomma, arriva Gesù e si piazza al primo posto nella classifica dei best-sellers del New York Times per duemilaeventidueanni. E così, tutti gli altri mondi, tutte le altre narrazioni, sono andate un po’ in disuso…Bibbia e sequel hanno imposto una narrazione unica che è quella che conosciamo bene in tutte le sue declinazioni, da quelle più secolarizzate a quelle più ortodosse, quelle che gli altri libri, gli altri mondi possibili, li mettevano al rogo sulla pubblica piazza, perché tutte le altre narrazioni sono possibilità, e le altre possibilità sono un pericolo per la narrazione unica…mostrano che non lo è. Questa è la forza della rappresentazione, di “non un’unica storia” come scrive Chiamamanda Ngozi Adichie. (prima che qualcunə sottolinei che la Bibbia è il prequel di Gesù, ainou, but diciamo che prima di arrivare in testa alle classifiche aveva ricevuto parecchi rifiuti. Tutti son corsi a comprarla quando è uscito il secondo capitolo…più o meno…dai, è più divertente così…)

E insomma, ce n’erano parecchi di mondi prima dell’anno zero, infatti dalla tradizione orale che comprendeva l’Iliade e l’Odissea, si era già passati al verbo scritto, ma non per questioni metafisiche o volontà divine, le Tragedie greche si iniziano a scrivere per permettere agli attori, termine che deriva dal greco HYPOKRITHÈS…hehe…di imparare a memoria.

Quello della Tragedia greca non è un genere, quella greca non è la tragedia in senso elisabettiano o hollywoodiano, cioè il meccanismo di compatimento dell’Eroe e redenzione dei suoi peccati.

La Tragedia Greca è la scuola del popolo, è l’educazione civica, e soprattutto etica e morale. Si, esatto, lo scopo è lo stesso delle religioni monoteiste, infatti come una messa, la Tragedia era un rito collettivo non elitario: le tragedie andavano in scena durante le giornate dedicate alle feste in onore del dio Dioniso, che per la cronaca era il dio dell’estasi, del vino, dell’ebrezza e della liberazione dei sensi…non esattamente il dio cristiano… insomma le feste in onore di Dioniso si svolgevano una volta l’anno ad Atene nel mese di marzo, e tutta la città era invitata ad assistervi nel theatron che etimologicamente significa il luogo da cui si osserva, che era all’aperto ed accoglieva migliaia di persone. I meno abbienti trovavano il biglietto pagato dalla Cassa dello Spettacolo. Nessuno restava fuori…proprio come….lasciamo stare.

Il termine tragedia deriva dall’insieme delle parole tragós cioè capra, e ōidė cioè ode: ode al capro. Si, lo so che ti immaginavi qualcosa di più poetico, ma aspetta che ti spiego. Siccome si andava in scena durante le feste dedicate a Dioniso c’è la possibilità che il significato sia legato al sacrificio di un capretto che probabilmente si svolgeva prima della messa in scena per onorarlo, o forse, in qualche modo ai satiri che sono personaggini bruttini e dispettosini con mezzo corpo di capro legati al culto di questo dio. Ma la verità è che, come tanto della rigogliosa cultura della Grecia antica, non lo sappiamo con esattezza. Possiamo solo ipotizzare.

E qui mi fermo perché non sono una storica del teatro tanto meno una grecista, né questo è lo scopo di questo luogo, però raga la tragedia greca è tanto ma tanto affascinante, la sua struttura, la messa in scena…insomma, se poco poco ti ho fatto venire voglia, trovi un sacco di testi, anche cosine veloci da leggere online.

Veniamo a noi, veniamo agli Eroie, alle Ero-ine, e agli uomini che scrivono l’umano.

Veniamo a Sofocle.

Sofocle è uno dei tre grandi della Tragedia greca i cui scritti, in parte, sono giunti fino a noi. Gli altri sono Eschilo ed Euripide. Per ricordarseli tutti e tre in ordine cronologico, nelle accademie di teatro ti insegnano a gridare: Eschilo, signori! Eschilo che qui si Sofocle! E fate attenzione a quelle scale Euripide! A me lo gridava mio padre dai cancelli della scuola quando veniva a prendermi alle elementari, sarà stato per quello che i miei compagni mi trovavano stranina.

Sofocle è quello di Edipo Re per capirci. Ve lo dico perché la Tragedia greca non varia i suoi soggetti, segue invece una narrazione estremamente schematica che deriva dai racconti della tradizione orale dell’Iliade e dell’Odissea perché i personaggi di quelle storie erano come Gesù per noi…come Harry Potter….e quindi si divide sostanzialmente in quattro grandi filoni narrativi: quello della guerra di Troia, Achille, Elena, il cavallo…quello del ciclo degli Atridi che sono i discendi di Atreo, non Atreiu, che è il padre di Menelao, che è il marito di Elena…quello del ciclo degli Eraclidi, discendenti di Eracle che conquisteranno il Peloponneso dopo la guerra di Troia, e il ciclo dei Tebani, che è il mio prefe, ed è quello di Edipo e dei suoi figli: Eteocle, Polinice, Ismene, e Antigone. In soldoni eh, capiamoci.

Arrivando da una famiglia di teatranti, Antigone è esistita sempre per me, ed è stata sempre una figura eroica perché Antigone si immola per ciò che ritiene giusto, nonostante si ritrovi sola a difenderlo. E’ sempre vissuta nella mia mente come un’eroa per quello significano per me il coraggio, e l’amore, e la cura. Anche perché la sua storia parla di un amore altro da quello richiesto ad una donna, un amore non scontato, e felice, spontaneo: quello per il fratello, suo pari, suo amico. Un rapporto raro nella letteratura Classica.

( il rapporto tra Antigone e Polinice non è spiegato nell’Antigone, è dato per scontato in quanto rapporto fraterno, ma ricordatevi che questa vicenda fa parte di un ciclo, è compresa in una narrazione che è sia precedente che successiva a questa Tragedia specifica, questo significa che esistono del loro rapporto, narrazioni sia precedenti che successive, come ne I Sette Contro Tebe di Eschilo, o ne Le Fenice di Euripide. )

E poi…e pensa che mi ha fatto sorridere all’inizio quando ci ho pensato, ma in realtà…non è divertente…di solito per interpretare Antigone vengono scelte attrici dalle caratteristiche fisiche e vocali non troppo delicate o angelicate. Spesso Antigone viene portata in scena con quella che comunemente verrebbe definita un’estetica mascolina, o androgina, che però è solo una donna senza orpelli, senza vincoli di genere esplicitati. E questo per la bambina che ero, una bambina che non capiva perché ad un certo punto fosse diventata una femminuccia era così affascinante. Così importante.

Insomma, per me Antigone è sempre stata una figura piena e positiva.

Poi, come abbiamo visto anche con i testi di Shakespeare, nel corso dei secoli sono state partorite le più disparate interpretazioni e letture di questo testo: c’è chi si chiede se Antigone sia una rivoluzionaria o una ribelle…ooocchei…c’è chi ci vede dentro la lotta tra Stato e mafia…c’è chi non pensa che Antigone sia eroica, ma piuttosto testarda e viziata…

Io raga, vorrei fare quel che faccio di solito, attenermi alle parole, guardare al contesto in cui vengono scelte, e farmi un’idea mia.

Come Antigone.

Chi è allora Antigone? All’epoca dei fatti che porteranno alla sua morte…raga non è uno spoiler perché è una tragedia…è una ragazzina: è giovane e muore giovane.

Antigone è la figlia nata dall’inconsapevole incesto tra suo padre Edipo, re di Tebe, e sua madre, che è anche madre di Edipo, Giocasta. Dal mostruoso incesto nasce anche un’altra femmina, Ismene, e due maschi, Eteocle e Polinice.

E tutti vivono felici e contenti a Tebe fino a quando Edipo scopre il fattaccio, si cava gli occhi e smatta, e Giocasta si ammazza. Questo per farla tanto ma tanto breve, perché come vi dicevo prima, questa storia fa parte di un ciclo che comprende generazioni.

Smattato il re, alla guida del regno (escludendo le due donne chiaramente) restano i due maschi, i due fratelli, Eteocle e Polinice, che decidono di non seguire le regole incancrenite della generazione dei padri, decidono di cambiarle e spartirsi il potere…di differenziare l’offerta insomma: governeranno Tebe un anno a testa alternandosi sul trono.

Comincia Eteocle, che però allo scadere del suo anno, viene meno all’accordo e non lascia il trono a Polinice…esiliandolo.

Polinice però, ad Argo, città storicamente nemica di Tebe, sposa la figlia del re guadagnando un esercito di diecimila uomini, che fa marciare contro Tebe per rivendicare il suo diritto al trono.

In questa guerra i fratelli moriranno entrambi, muore Eteocle e muore Polinice. Sale sul trono lo zio Creonte, fratello di Giocasta la defunta regina, moglie e madre di Edipo. Creonte stabilisce che ad Eteocle spetteranno onori e sepoltura degni di re ed eroi, mentre a Polinice, no. A Polinice non spetteranno onori, ma non spetterà neanche una sepoltura.

Il nuovo re lo spiega con queste parole al popolo di Tebe: “Eteocle è caduto difendendo la sua città dopo essersi coperto di gloria in battaglia: lo seppelliremo dunque in una tomba e compiremo tutti i riti che spettano agli eroi sulla terra. Per quanto riguarda suo fratello, invece, questo Polinice che è rientrato dall’esilio unicamente per mettere a ferro e fuoco la terra dei suoi padri, per dissetarsi del loro sangue e piegare i tebani in schiavitù, ho già solennemente vietato che gli si accordino sepoltura o canti di lutto. Decreto che venga lasciato là, cadavere senza sepoltura, banchetto e diletto dei cani e dei corvi[…]”

Ora, capisci che Antigone ed Ismene, a questo punto delle loro vite, nate da un incesto, orfane, e ora in lutto anche per tutti e due i loro fratelli, non se la passano proprio alla grandissima. L’umore non è dei migliori e Antigone decide che non sarà più bandiera al vento del destino, che non accetterà la decisione di suo zio, e non lascerà che il corpo del fratello venga divorato dagli animali in piena vista sulla pubblica via.

N.B: c’è da evidenziare che il tema della sepoltura dell’eroe è ricorrente, è quasi una figura nella narrazione della tragedia, per esempio lo troviamo anche al centro di Le Supplici di Euripide (non quella di Eschilo che racconta un’episodio diverso) sempre ambientata a Tebe e che riguarda la generazione precedente a quella di Antigone. La figura della sepoltura infatti ha a che fare con il concetto di pietà nella Tragedia: il nemico è vinto ma è umano, e per questo merita cura almeno nella morte. Del resto, se guardiamo sia alla leggenda che alla Storia, l’esposizione del corpo morto privato della ritualità appartiene in qualche modo alla figura del cattivo, appartiene al mondo oscuro dell’abbrutimento e della perdita dell’umanità: Dracula esponeva le teste mozzate dei suoi nemici, i fascisti esponevano i corpi dei resistenti, e i nazisti non si scomodavano a coprire le pile di cadaveri nei campi di concentramento. E’ un rito umano simbolicamente ricchissimo quello della sepoltura o cremazione del cadavere.

Torniamo allora ad Antigone con questo post-it in testa: c’è un altro personaggio tragicamente struggente in questa storia, si chiama Emone ed è il figlio maschio di Creonte, nonché promesso sposo di Antigone.

Abbiamo quindi una struttura a schieramenti: il vecchio VS il giovane. Il patriarca VS la nuova generazione. Ma anche il re VS il popolo, e l’uomo VS gli dei.

Quindi, tiriamo le fila: Antigone decide che seppellirà suo fratello. Che non lo lascerà in pasto alle bestie e agli sguardi della gente durante la decomposizione del suo giovane corpo.

Ne I Sette Contro Tebe Antigone dice: “Io ai potenti di Tebe rispondo: se pure nessuno è disposto, con me a scavargli una fossa, io lo farò, sfiderò questo rischio d’inumare il fratello. Non ho pudore di rompere il patto, di rivoltarmi allo Stato.
Nodo enorme la vita dallo stesso ventre, da madre afflitta, da padre sinistro.
Oh, mio cuore, osa:
spartisci la rovina con lui che non ha più volontà.
Da viva a morto, con fraterno sentire. Non sfamerà mai la sua carne gole abissali di lupi. Non fateci conto. Tumulo, funebre fossa per lui: scoverò io come fare. Sono donna, che importa? Userò il lembo del peplo.
Sono sola, ma l’avvolgerò. Nessuno s’aspetti smentite. L’ardire avrà dalla sua espediente efficace.”

Questa è la trama.

Il motivo per cui l’ho ripresa in mano, Antigone, è che pensavo che rileggendola sarebbe successo quello che mi è successo ogni volta da quando scrivo questo blog: rendermi conto che la narrazione che mi aveva affascinata, che mi aveva convinta come bambina, è anche quella che mi ha annebbiato lo sguardo. 

Ero tranquilla che anche questo vegliardo (Sofocle) mi avrebbe dato qualcosa su cui scrivere, qualcosa di moderno da dire. Ma la verità è che al contrario di quel pirla di Shakespeare…si fa per scherzare dai, siamo in famiglia, Sofocle non usa espedienti: non c’è poesia, non nel senso di imbellettamento.

L’eroe è tale perché sceglie l’umanità, e il cattivo è tale perché sceglie l’avidità.

Questa struttura, questo tipo di Tragedia, la parola stessa di Sofocle, non sono quelle shakespeariane o ottocentesche in cui l’ironia redime l’Eroe, o il dolore lo ripulisce delle sue scempiaggini. Qui la struttura è cruda, al neon, la violenza è priva di bellezza: nessuno ama Creonte o piange per lui, non alla fine, ma neanche all’inizio. Non piangiamo per lui come per Otello o Lear o Amleto che spingono tutti alla morte, avidi di potere e vendetta, ma alla fine che romantici, che poetici, che orsacchiotti dagli occhi profondi come l’abisso.

Creonte è uno schifoso tanto che suo figlio Emone – COLPO DI SCENA – non fa quello a cui ci hanno abituatə le letterature classiche che seguiranno nei secoli e che appunto derivano dal concetto di pater familia cristiano, Emone non accetta la sete di vendetta di suo padre come Amleto. Non gli resta vicino nonostante, come Cordelia. 

Emone lo giudica, ci pensa con la sua testa, e si rende conto che le decisioni del padre sono un’oscenità, tutte. Infatti, quando Creonte scopre che la giovane nipote Antigone ha osato sfidare la sua autorità seppellendo il fratello, la condanna a morte. Ma attenzione, perché non solo non si fa alcuno scrupolo, ma condanna la nipote senza alcuna dignità e senza coraggio della propria azione. Infatti, quando in lui si insinua il dubbio…voci di corridoio…bisbigli di palazzo…che forse il popolo, forse gli dei, non sono dalla sua, per non saper né leggere né scrivere, non fa giustiziare Antigone. La fa calare in una fossa con un po’ di acqua e un po’ di cibo, condannandola così ad una morte lentissima. Ad una lunghissima agonia. Solo perché gli dei non possano dire che Antigone è morta di suo pugno.

Emone ci prova a convincere il padre a non farlo, ma quando quello lo tratta a pesci in faccia, lo sfancula e se ne va…dove? Dopo te lo dico.

Insomma, qui la faccenda è che Antigone ed Emone sono giovani e sono portatori di valori diversi, di progresso: il loro è esattamente lo scarto generazionale che vediamo oggi tra i boomers e Greta Thunberg. Antigone ed Emone capiscono che c’è l’esigenza del cambiamento, del rinnovamento, e tutti sono con loro: gli dei, e il popolo di Tebe. 

Tiresia, che è l’oracolo, un’altra figura della Tragedia e della mitologia, cioè un essere umano in grado di leggere i segnali degli dei, lo dice chiaramente a Creonte: questo male di cui Tebe soffre, non ci arriva che dalla tua volontà.” Gli dice:non accanirti su chi non è più. Sarebbe forse un atto di coraggio uccidere un morto una seconda volta?”

E spetterà al Coro poi, chiudere la tragedia con un monito chiaro conto l’orgoglio. Nessuno sconto di pena insomma, nessun imbellettamento da parte del drammaturgo.

*Il Coro è una figura della Tragedia Greca, un “personaggio” composto da più persone che assistono alla tragedia, e che rappresenta per esempio il popolo. E il Coro parla, tendenzialmente apre e chiude la Tragedia.

Insomma, la questione di creare una linea del tempo, di poter scorrere con ordine, è arrivata riprendendo in mano l’Antigone di Sofocle perché ho realizzato che la storia del pensiero non è immutabile: c’è stato un tempo in cui la narrazione era evolutiva, era comprensiva, era umana. Per Sofocle non erano estranei, non erano d’altri tempi i temi del paternalismo, della misoginia, della mascolinità tossica. Non era un figlio del suo tempo che cercava di farcela, però…leggendo Antigone ho visto come Sofocle stesse già raccontando ai suoi spettatori che la paura del diverso è pericolosa: il diverso in quanto giovane, il diverso in quanto donna in questo caso. Insomma, Sofocle one of us, stava già combattendo le nostre battaglie, e adesso non posso fare a meno di immaginarmelo in un duello dialettico con Shakespeare che mille anni dopo manda in vacca tutto il suo lavoro perché è bravo con le parole!

Misoginia, paternalismo e mascolinità tossica: Sofocle non ci gira intorno, non le camuffa, le mette al centro.

Si parte dal presupposto che nella società in cui Sofocle scrive, le donne sono figlie, e madri e spose. Fine. Questa è la possibilità che hanno ed è priva di poesia. Sofocle non fa di Antigone l’angelo del focolare, la bella, né decanta l’amor cortese tra lei ed Emone. Non sappiamo nulla di loro e non leggeremo romantiche dichiarazioni da trascrivere sui diari. Siamo a Tebe nel 600a.c. Contesto chiaro. Nessuno arriva a Milano in barca. Tanto che probabilmente moltə di noi, quando entra in scena, danno per scontato che Emone, come l’Eroe mitologico o Shakespeariano, cederà al dovere filiale nei confronti del PadrePadrone.

Invece quello che fa super Sofocle 4president, è che all’inizio della tragedia Antigone ed Ismene sono le prime a parlare ed entrano in scena per essere l’archetipo delle due possibilità che offre come frutto, l’albero del patriarcato, e quel frutto non è la Santa o la Puttana shakespeariana o romanticha, ma sono la Donna intesa come persona, come essere umano, rappresentata da Antigone, e la Donna come costrutto sociale nel contesto della sua società misogina, rappresentata da Ismene. 

Ismene, quando Antigone la mette a parte della sua volontà di seppellire loro fratello Polinice sfidando la volontà del patriarca Creonte, non trova niente di meglio da dirle che: renditi conto prima di tutto, che non siamo che donne: la natura non ci ha fatte per lottare contro gli uomini.”

Ismene è perduta, è indottrinata, ed è soprattutto estranea a sé stessa, che è l’arma più potente del patriarcato: rendere le donne estranee a sé stesse. Questo fa si che lei non comprenda più i legami. Non riconosce più l’amore che prova per il fratello morto e per la sorella che si accinge a compiere un atto irreversibile che la condurrà alla morte. Ed è anche quello che succede alle donne vittime di violenza che non riescono a denunciare, a scappare perché sono convinte che lo faccia per il loro bene.

Il risultato della sua società, la società in cui Ismene si è fatta donna, è la disumanizzazione dell’individuo che non comprende più i legami di cura che la natura implica: l’empatia. E il patriarcato, la mascolinità tossica, non fanno male solo alle donne, ci racconta Sofocle.

Antigone invece è, quindi pensa. Il contrario di cogito ergo sum. Resiste. Per questo ha mantenuto un’identità, ed è l’identità a renderla l’Eroe…l’Eroa.

Antigone non è un’ero-ina. 

Non compare nei libri con le copertine rosa sulle Ribelli

Antigone è l’Eroe. E come tutti gli eroi, muore. Non in quanto donna. Moglie, figlia…muore in quanto centro della narrazione. In quanto simbolo dell’umano.

Ma non è l’eroe del Mito, guerrafondaio, sesuomane ed insicuro. E’ l’eroe della Tragedia, dell’evoluzione della narrazione, e quindi muore per difendere, muore per la giustizia, e muore con gli dei dalla sua parte non contro, non dispettosi ma giusti.

Dice una delle cose più belle che ho mai letto Antigone, rispondendo alle stronzate di sua sorella. Dice: lo seppellirò io Polinice, e sarò FIERA di morire agendo in questa maniera.  E’ così che potrò riposare accanto a lui, cara a chi mi è caro. SANTAMENTE CRIMINALE.”

Pari e con un’identità precisa. Un’identità di cui andare fiera. Consapevole. Non c’è nella narrazione di Sofocle, tra Antigone e suo fratello Polinice una questione di genere, ci sono due Eroi perché ci sono due identità, due esseri consapevoli. 

(postilla sul SANTAMENTE: trovandoci in epoca pre-cristiana, un’epoca in cui il concetto di divino esisteva chiaramente ma quello di santità per come lo intendiamo noi era ancora da venire in quanto retaggio della cristianità, mi sento di sottolineare che la santità di Antigone non è da intendersi com l’assenza di peccato, anche questo concetto cristiano, ma come l’assenza di colpa. Come -innocentemente- criminale- che certo non suona nello stesso modo…lo stesso, se mi fossi trovata a tradurre dal greco antico, cosa che non sono assolutamente in grado di fare, avrei posto l’attenzione su questo particolare.)

Non c’è la narrazione pietosa di Desdemona che dice “il mio cuore è SOTTOMESSO alla piena felicità del mio signore”, direttamente dipendente dalla sua. Desdemona appendice alla comprensione di Otello. La felicità di Antigone non dipende da fattori genetici o contrattuali, ma morali ed etici. Il pensiero di Antigone è complesso ed è funzionale alla narrazione in quanto vascello di giustizia sociale assoluta, complessiva e comprensiva di chiunque sia essere umano, cioè il fuoco della narrazione. Il suo centro. Il titolo stesso qui, è identitario, è lei.

Questo fa di lei l’Eroe, l’Eroa, e non l’ero-ina.

Antigone sceglie.

Antigone poteva essere maschio, invece è femmina.

Non c’è nella narrazione di Sofocle, in questa per lo meno, nell’Antigone non c’è accondiscendenza rispetto alla misoginia forense di Creonte, e cioè della società dei Padri, del mondo degli Uomini. Tutto è esattamente quello che è: tutti muoiono perché Creonte è un misogino che rifiuta di ascoltare la verità da una donna. E poi è un pavido che rifiuta di ascoltare la verità da chi è più giovane.

Non ci sono simpatici aforismi o brillanti frasi fatte sulle donne, di quelli che fanno sorridere ma anche riflettere (sono ironica) alla Oscar Wilde, che rivelano in verità soltanto l’ignoranza che secoli di puritanesimo infliggevano anche alle menti “illuminate”.

Sofocle dichiara la misoginia e dichiara il paternalismo e racconta la mascolinità tossica, e li condanna.

E basta.

Creonte dice: “finché avrò vita, non sarà mai una donna a dettarmi legge.”

E a causa di questo, tutti muoiono. 

Non c’è niente da dire su Antigone, sull’astuzia del gentil sesso

Creonte dice: “rimanere sempre appresso alla volontà paterna. E’ per questo che gli uomini vogliono dei figli docili: perché li vendichino dei loro nemici.”

E a causa di questo, tutti muoiono. Non c’è niente da dire sull’amore paterno alla Re Lear.

Creonte dice: “figlio mio, non sia mai per il piacere che una donna ti può dare, che tu debba perdere la ragione.”

E a causa di questo, tutti muoiono.

Non c’è nessun gioco erotico o di seduzione alla Bisbetica Domata in cui vince chi soffre, o cazzate simili. Creonte non riesce a concepire che non sia sessualizzata la presa di posizione di Emone. Che non c’entri con lo sfogo del corpo che obnubila la comprensione delle cose. Il patriarca non riesce a vedere che il figlio sceglie le ragioni di una persona. Emone non è un ragazzino con il cazzo in mano e questo è inconcepibile per il patriarca.

Creonte è il mondo degli Uomini, è il mondo dei Patriarchi, e fallisce perché non accetta altro da sé. Non accetta l’Altro. Il fallimento di tutti i despoti: la paura dell’Altro. Fallisce perché accecato dall’avidità e dall’insicurezza, non comprende più l’Amore. I suoi rapporti sono unicamente di potere, unicamente di sottomissione e visi a supportare unicamente il suo egocentrismo. Ma questo può avere come risultato unicamente la perdita, il vuoto, la solitudine.

Creonte non conosce l’Amore, ma non l’amore che è O romantico O violento, o romanticamente violento, delle letterature Classiche.

Quello che Creonte non conosce è L’Amore nel suo significato etico: la cura, la condivisione, lo spazio e l’ascolto. L’empatia, cioè essere l’Altro. Riconoscere sé stessə, nell’altro.

E questo è sostanzialmente, per me, il motivo per cui una donna come Meloni non è una vittoria per la parità: perché è questo il bagaglio che propone e che coltiva. Questo è il centro della sua narrazione. Non il fatto che con 2022 anni di ritardo una donna arrivi ai vertici del potere. Non quando ci arriva come scudo al suo esercito di Creonti, come vascello alla loro narrazione autoritaria, autarchica e misogina.

Meloni è Desdemona in questa narrazione: è funzionale al sostegno delle cariche già acquisite, e che per sostenerle propone di rimettere mano a quei diritti che impedirebbero a Creonte di decidere del destino di Antigone. Per questo non è il progresso.

Creonte non conosce Amore. E Amore ovviamente non conosce i Maschi e le Femmine. Amore conosce le Persone: Antigone ed Emone. Ma anche il coro…e anche la povera Euridice.

Euridice non quella del mito ma la moglie di Creonte, che come conseguenza delle scelte di suo marito, si ammazzerà. Si, perché ti ricordi quando prima ti ho detto che Emone sfancula suo padre e se ne va? Ti avevo detto che ti avrei raccontato dopo dove. Bene, Emone sfacula suo padre gridandogli il suo disprezzo, prende il suo cavallo e va alla buca dove hanno intrappolato Antigone, ma quando arriva…Antigone è già morta. Si è impiccata con le sue vesti ad una radice sporgente. Anche alla fine non lascia che siano gli altri a decidere per lei. Ad imporle di fronte a morte certa, che sia anche lenta, che sia anche un’agonia…ogni riferimento allo Stato Italiano che impedisce il fine vita è puramente casuale. Allora Emone si cala nella buca e abbracciato a lei, si trafigge con la sua stessa spada.

Così appena la notizia la raggiunge, Euridice corre nelle sue stanze e si ammazza.

Questa è la tragedia greca, quella in cui muoiono i buoni come conseguenza delle scelte dei cattivi. Quella degli Eroə persone. Non un unica storia.

Quasi futuristica. Da qui. Da dove ci troviamo oggi.

Sofocle e Shakespeare hanno vissuto due culture molto diverse.

Entrambe molto misogine e paternalistiche, ma personalmente non riesco a non percepirli in maniera estremamente differente.

La cultura della Grecia antica era una cultura che celebrava la natura e gli istinti. Che venerava Dei sessuomani, dispettosi, ubriaconi, ogni aspetto dell’essere umano insomma, e questi eccessi non erano taboo, venivano raccontati e condivisi, e ironizzati pubblicamente. E poi veneravano Dee, figure femminili potenti e guerriere, Dee che stabilivano la giustizia e la guerra, che si vendicavano, donne che vivevano con altre donne, a proposito di rappresentazione. Figure in contrasto con quella della donna angelo del focolare che lo stesso permeava la quotidianità dell’epoca. E questo permette di concepire a chi si fa carico della narrazione, che se una Dea può dettare giustizia, se una Dea donna e forte può esistere, allora può esistere anche l’Eroa.

Antigone esiste. Senza aggettivi di genere.

Quella elisabettiana invece, paradossalmente è stata anche un’epoca di grandi donne, ma irreversibilmente permeata di cristianesimo: la cultura senza natura. La cultura dell’unica storia, del puritanesimo, in cui sono vietate sia la parola sesso che la parola Dio, entrambe impronunciabili perché troppo qualcosa: troppo impura, e troppo pura.

Nella società elisabettiana come in quella della Tragedia, erano gli uomini a portare in scena le donne, ma le donne portate in scena nella Tragedia erano sagge, erano moniti, erano eroe, erano guerriere e dee, oltre che madri e mogli.

Pensate che nella struttura della Tragedia, il Coro è composto principalmente da due categorie del popolo: anziani e donne. Questo perché la Tragedia da alle categorie mute, quelle marginalizzate, il compito della prospettiva e della parola.

E’ un bel punto di vista mi sembra, per raccontare alla città le ingiustizie, lasciare la parola a chi le subisce più esplicitamente.

La Tragedia greca si fa dunque carico della Critica. Si rende responsabile della narrazione.

Il teatro elisabettiano, di cui Shakespeare è intramontabile simbolo, invece non era Scuola, era un teatro su commissione, spesso dei componenti delle grandi dinastie reali, ed era fatto per divertire, certo, ma anche per compiacere, e il compiacimento non si incontra mai con l’etica, con la purezza. Il teatro elisabettiano doveva compiacere le gerarchie e la dottrina, e questo lo impoverisce purtroppo, nonostante la bellezza della parola, davanti alla profonda umanità della Tragedia greca. E’ peso da dire…lo so…forse sto esagerando, forse mi son fatta trasportare dal grande entusiasmo che si prova quando non ci si sente solə. Quando ci si rende conto dopo anni di sconforto, che altrə prima di noi sono stati lealə, e sono stati coraggiosə e liberə nelle loro narrazioni.

Mentre scrivo del mondo dei padri di Antigone, alzo lo sguardo ed è notte fonda in una città del nord Europa. Il posto dove ho scoperto che il freddo poteva arrivare a -15, e vedo che ho la finestra aperta, perché stasera fa troppo caldo: ci sono 19 gradi in questo ottobre inoltrato. E mi viene da piangere. Mi viene paura di non vedere mai più la neve, di avere per sempre caldo, le ascelle pezzate, le cosce che sfregano, di respirare male…poi penso a Gasparri, alla Meloni, a quell’altro che mi chiama schifezza, e mi viene un panico che mi paralizza e mi fa scendere la voglia di scrivere perché tanto…come può essere etico che un’alta carica dello Stato chiami una parte del suo popolo SCHIFEZZE?

Forse Eschilo non l’hanno letto.

Però noi si…

Facciamoci carico della critica allora. Rendiamoci responsabili della narrazione.

Cin!

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