Io non sono Holden: otto marzo e romanzo di formazione

C’è un otto marzo in particolare, che ricordo più di altri, meglio, più nitidamente.

Avrò avuto forse sette anni? Otto anni l’otto marzo? Ad ogni modo c’era un’oasi di natura palustre sopravvissuta all’industrializzazione della periferia in cui sono nata. Non ci metto piede letteralmente da decenni: sono improvvisamente capitata in quella fase della vita in cui si può pensare in decenni e mi viene da vomitare, ma tant’è. Se cerco quel luogo su Google viene scritto “frazione rurale di…” e posso leggere anche che la zona si è ridotta notevolmente con la costruzione, tra il 2007 ed il 2009, di un ponte a 14 campate che collega la periferia industriale alla A4.

All’epoca di quel ricordo nitido, c’era un piccolo maneggio circondato da campi, le zanzare del Po, e un enorme salice piangente. Ci si facevano le feste di compleanno dei compagni di scuola, la caccia al tesoro a Pasquetta, e ci si festeggiava l’otto marzo.

Una lunga tavola sotto le fronde del salice, coperta di teglie di alluminio contenenti paste al forno e torte fatte in casa. E tantissime femmine. E tantissimi bambini. E musica. E non so più se i miei ricordi cercano aiuto in immagini acquisite tipo la festa a Tara nella prima parte di Via Col Vento. Ma a me sembra reale: il salice, i jeans a vita alta, e le frange spettinate delle donne che sono state ragazze negli anni ’70.

Io di quel giorno, come bambina, percepivo solo la gioia di quelle donne adulte. Di mia madre. Solo la gioia di un giorno di festa. Non avevo ancora i mezzi, né le ragioni, per chiedermi il senso di una giornata mondiale per festeggiare qualcosa che capita di nascere, o dover scegliere.

Mi avvicino adesso, ad avere l’età che aveva mia madre in quel ricordo. E non ho saputo ancora darmi una risposta esaustiva rispetto alla domanda che poi sì, è nata: a cosa serve l’otto marzo?

Ci penso ogni anno, ci penso tra un anno e l’altro per arrivarci preparata. Ma niente.

Forse è una celebrazione che cesserà di esistere quando la generazione delle nostre madri sarà estinta. Forse saremo forzatə a reinventarne il senso, a renderla nuovamente necessaria. Non lo so.

So che oggi saremo ancora una volta bombardatə di numeri, statistiche, parole, immagini più o meno patetiche, più o meno necessarie.

Poi da domani potremo tornare a balbettare di fronte all’arroganza di coetanei che ci insegnano che la parità esiste già. Che tutti quei numeri, quelle statistiche, quelle parole, quelle immagini, loro le sanno confutare. Che sono inutili. Che siamo isteriche.

Poco importa che a parlare di gender gap siano organi europei, che a parlare di violenza di genere siano istituzioni statali, che a parlare di gap salariale siano organizzazioni non governative internazionali. Poco importa che statistiche inconfutabili siano reperibili da fonti certe, in ogni angolo della rete.

Sedutə a tavola davanti ad un bicchiere di vino, in tantə continueranno a compatirci, ed un po’ a stuzzicarci sollevando un angolo di bocca, per il nostro “femminismo”: La parola più odiata degli ultimi secoli. Più di razzismo. Più di stupro. Più di guerra.

E so che da domani, io riprenderò a sorridere di questa ossessione patologica della nostra società come sorrido di fronte ai bambini che con gli occhi gonfi di sonno e zucchero, rifiutano il letto nelle sere di festa. E continuerò ad avere mal di pancia. Sempre. A causa di questa ossessione patologica che nega milioni di realtà.

Che spinge molte persone donne in difficoltà ad avvalersi di avvocati maschi perché sono più credibili ed incutono più timore. A farsi accompagnare dal marito a trattare prima di compare un bene immobile, o una macchina. A farsi venire a prendere dal padre la sera dopo un concerto. Ad accettare come normale il dover “chiedere” al padre dei propri figli se può starci dietro una sera per farti uscire. A credere che la vita senza un uomo sarebbe un inferno, e quindi a sceglierne uno in fretta, a sceglierne uno disperatamente.

L’otto marzo mi da fastidio perché mi fa sentire minoranza quando non lo sono. L’otto marzo mi da fastidio perché mi fa sentire una bestia pregiata, ottima carne da macello come la vacca Frisona. L’otto marzo mi piace perché mi ricorda secoli di donne forti che hanno sfidato l’assurdità di quelle che venivano riconosciute come Istituzioni. L’otto marzo mi piace perché un significato l’ha avuto. E’ stato necessario, al contrario della maggior parte delle celebrazioni che ogni anno ci inducono a spendere maree di denaro. Mi piace come il 25 Aprile perché è la memoria di qualcosa che ha fatto la differenza, senza la quale oggi saremmo diversə.

Ma mi fa stare male, come mi fa stare male il 25 aprile, il fatto che si debba usare come monito di quello che potrebbe tornare, e chi nega la Storia.

Negli ultimi due mesi mi è capitato spesso di partecipare alle presentazioni di un libro scritto da una donna, Antonia Spaliviero. Il libro s’intitola La Compagna Natalia ed è edito da Sellerio.

Mi viene chiesto di partecipare, di parlare di lei e a volte per lei, perché lei è morta nel 2015 ed era mia madre.

Durante il primo lockdown, mio padre ha rimesso insieme quarant’anni di suoi scritti: fogli, quaderni, files. Tirati fuori da scatoloni, da mensole, da vecchi computer, iniziati la notte di capodanno del 1968. Li ha messi in ordine, e poi insieme li abbiamo editati. Sellerio ha amato il libro che sono diventati, e l’ha pubblicato.

Qualche sera fa è capitato che a presentare il libro ci fossero due giornalisti, un prete, un accademico di Francia, e che io fossi l’unica donna a parlare del libro di una donna che parla di essere una donna in un mondo di uomini. O almeno, anche di quello.

Gli uomini su quel palco erano felici e pieni di stima nel celebrare il lavoro di questa persona, ma erano tutti uomini, ed è accaduto organicamente che organizzando la serata, nessuno ci abbia pensato. Non per volontà. Per abitudine.

Gli uomini hanno parlato de La Compagna Natalia come di un Romanzo di Formazione.

Romanzo di Formazione:


“Il romanzo di formazione o Bildungsroman (dal tedesco) è un genere letterario riguardante l’evoluzione del protagonista verso la maturazione e l’età adulta tramite prove, errori, viaggi e esperienze, nonché la sua origine storica. In passato lo scopo del romanzo di formazione era quello di promuovere l’integrazione sociale del protagonista, mentre oggi è quello di raccontarne emozioni, sentimenti, progetti, azioni, svelate nella loro genesi interiore.
Si tratta di un genere peculiare perché verte su una formazione che spesso non riguarda solo il protagonista ma coinvolge anche il lettore.” Wikipedia

Nella pagina Wiki in lingua inglese dedicata al Romanzo di Formazione, per vedere dei nomi femminili “basta aspettare” l’ottocento. Ad oggi infatti, 2022, l’enciclopedia online più consultata del mondo, nella sua pagina nella lingua forse non più parlata, ma probabilmente trafficata, inserisce ben tre donne nella categoria: Charlotte Brontë, Emily Brontë, e Louisa May Alcott. In compenso non ne inserisce NESSUNA nella sezione XX secolo, e non è presente una sezione XI.

Nella pagina Wiki in lingua italiana dedicata al Romanzo di Formazione invece, le tre scrittici non compaiono. Bisogna aspettare il 1954 per Elsa Morante. Seguita da Dacia Maraini, 1963, Lalla Romano nel 1979, e da J.K. Rowling.

C’è in lingua italiana una sezione XI secolo, in cui compare Elena Ferrante, di cui però non conosciamo l’identità reale.

Wikipedia non ha, né fisicamente, né forse intellettualmente il peso delle più prestigiose enciclopedie stampate su carta e presenti nelle librerie o nelle biblioteche, anche se comunque non ci forniscono dati differenti. Ma librerie e biblioteche non sono più, per i più, i luoghi della formazione, o della ricerca. Wikipedia lo è. Internet lo è. Quello che oggi la Russia sta oscurando per l’interezza della nazione più estesa della terra. E Wikipedia dice che la formazione della persona, dai tempi antichi ad oggi, l’hanno scritta i maschi.

Quando si parla di Romanzo di Formazione, probabilmente per primo viene in mente Holden. Poi Werther. Poi Törless. Poi Wilhelm Meister. Poi Candid.

Tutti maschi. Tutti bianchi.

Alle nuove bambine, quelle che sono nate negli ultimi 5 anni, forse, verrà in mente Jo, che si fa chiamare con un nome da maschio per rivendicare la sua presenza nel mondo, ma quanta fatica ancora a riconoscere la scrittura di Alcott “all’altezza” di quella di Goethe, di Salinger. Quanta fatica nell’accettarne la credibilità non solo nell’estetica narrativa, ma anche nei concetti.

Charlotte e Emily Brontë godono di maggiore credibilità, ma Cime Tempestose racconta della difficoltà di amare e farsi amare da un’uomo violento che tiene la moglie rinchiusa in una torre, e Jane Eyre è la storia di una vita femminile abusata e in costante lotta per la propria validità: un’amore che non vorremmo nessuna vivesse, una vita che non vogliamo nessuna viva più.

Louisa May Alcott in Piccole Donne propone una visione ideale, in un mondo devastato: donne che esistono in molteplici identità, forti, indipendenti ed istruite, e uomini che non le ostacolano, uomini felici, che le amano bene, senza violenza, senza prepotenza e senza paura di essere prevaricati, e che quindi per questo le supportano, non sono d’intralcio, non rallentano e non impediscono. Ma a causa di questa visione ideale, degli esempi unicamente positivi di maschile e femminile che offre, il lavoro di Alcott viene ancora considerato minore, meno autorevole, poco serio. Soprattutto negli ambienti accademici. Gli ambienti della formazione. Il regno degli uomini.

Solo nel nostro paese infatti, su 84 atenei, 5 hanno rettrici donna, il 6%, e 79 hanno rettori uomini, il 94% (dati CRUI).

Quindi, adesso, quando sento degli uomini parlare di romanzo di formazione rispetto al libro di mia madre, sono felice. Moltissimo. Ma il paragrafo qui sopra è diventato il mio copione perché sogno che si cominci a sapere che Holden non sono io. Condividiamo la curiosità verso le anatre del laghetto di Central Park, ma per decenni non abbiamo condiviso le stesse possibilità. Non abbiamo condiviso le stesse prospettive. Io non sono Holden. Holden non può essere l’unico sguardo: un maschio borghese, pigro e maleducato, bianco come il latte. Intelligente, ma troppo privilegiato per essere rappresentativo in senso universale. E certo, ognuno fa i conti con quello che ha, e i sentimenti di Holden valgono e importano, e sono a volte universali in quanto umani. Ma Holden è troppo fortunato per essere formativo in senso ampio.

Pochissimə di noi sono Holden.

Il romanzo di formazione per come l’abbiamo inteso fino ad oggi, è in parte massiva la narrazione della formazione del maschio bianco occidentale con problematiche che non derivano dal confronto con difficoltà pratiche ed effettive, dal confronto con una società che ti rinnega nel diritto e nell’identità, ma che derivano dal privilegio. Il privilegio di potersi dedicare corpo e anima all’astrazione e all’elevazione della mente e dello spirito. Con il corpo al sicuro: non schiavo, non merce.

Il mondo delle donne, il mondo delle persone non bianche, non eteronormative, la loro Storia, non ha mai conosciuto quel privilegio.

C’è un passaggio ne La Compagna Natalia che mi fa, più di quelli espliciti che si possono trovare nel libro, pensare a questo fatto della NON condivisione della Storia della maggior parte della popolazione umana con i grandi eroi del romanzo di formazione, e all’abitudine alla leggerezza dei giovani maschi bianchi eterosessuali che crescono protagonisti del tutto, che crescono con la possibilità di potersi identificare sempre nella figura centrale, nell’eroe, nel portatore di valore, identità e verità:

Al bar dell’oratorio maschile, il moderno demonio serviva solo gazzosa, spuma bionda e stic. Ma giocava a pallone con i ragazzi, e la sera si fermava a chiacchierare con i più grandi, come mio fratello, e lì, bisognava ammetterlo, si beveva anche birra. Ma soprattutto, scandalo! Perché si fermavano la sera all’oratorio? Per leggere e commentare i giornali, e non solo “Famiglia Cristiana”: i quotidiani. Mio fratello adorava Don Francesco. Era l’unico prete antifascista, diceva. Lo chiamava Franz. Suor Maestra aveva di Franz, la stessa opinione che ne aveva mia madre. Franz un giorno era venuto in visita pastorale all’oratorio femminile. Il giorno precedente suor Maestra variò il programma. Invece dell’uncinetto, incerammo i pavimenti, pulimmo vetri di finestre e porte, fino alle maniglie che lustrammo col Sidol. L’oratorio femminile era sempre virginalmente lindo, ma la visita del prete nuovo richiedeva comunque un rito di purificazione. Lui, si presentò in ritardo, sudato marcio, e col colletto slacciato. Mentre si asciugava fronte e collo col fazzoletto, si scusò con un sorriso da un’orecchio all’altro: aveva dovuto sostituire lo schiacciatore assente alla partita di pallavolo.

Oggi è l’otto marzo. Ho comprato ieri un mazzetto di mimose al supermercato che sono appassite nell’istante in cui le ho liberate dalla plastica. Oggi mi manca mia madre tantissimo perché con lei oggi sarebbe stato un giorno di festa. Le avrei comprato delle mimose belle da un fioraio e avrei preso il treno per pranzare insieme, oppure l’avrei aspettata alle 16 in stazione per andare insieme alla manifestazione. Invece scrivo, che è probabilmente quello che avrei fatto comunque, forse comunque di lei perché alla fine c’entrano sempre le madri. E sono arrabbiata al pensiero di tutto quello che mia madre sarebbe potuta essere forse, se fosse nata maschio: se si fosse concessa la leggerezza di giocare a pallavolo invece di lucidare i pavimenti, di leggere e commentare i quotidiani invece di fare l’uncinetto, se avesse potuto avere modelli assoluti femminili, invece che no.

Questo otto marzo, la ragione che trovo per celebrarlo, è parlare con quantə più posso, ancora, dell’importanza di avere dei modelli, della rappresentazione. E dell’importanza di dire: no, non mi sento davvero rappresentatə da Holden, da Werther, da Wilhelm.

Ho bisogno di altro, e ho bisogno che quel poco che già esiste, che già è stato scritto, mi venga riconosciuto, e raccontato, e non svilito.

Voglio celebrare questo otto marzo per la speranza di ricordarci tuttə di celebrare le narrazioni nuove, e riconoscere le narrazioni svilite da epoche razziste e sessiste e omofobe.

Da epoche dalle quali dobbiamo fare lo sforzo collettivo di slegarci, perché quei principi di esclusione e svilimento e prevaricazione e violenza, non possono più essere i nostri. Lo vediamo di più ogni giorno che passa: il fallimento del mondo unilaterale degli uomini. Il fallimento delle pratiche di esclusione, di forza.

Il mio celebrare oggi, il mio pensare al senso e alle ragioni, è per tutte le persone che nella Storia non sono potute essere ciò che sarebbero state se fossero nate maschi, bianchi, ed eterosessuali.

E a tutti i maschi bianchi eterosessuali che avrebbero potuto, che potrebbero oggi, in questo momento, non morire in guerre, battaglie, crociate, risse, se solo non avessero l’illusione della responsabilità dell’eroe da difendere, per conto di chi del protagonismo ne fa ossessione e malattia.

Modificare le narrazioni, riconoscere gli errori di quelle passate, anche questo, significa ripudiare la guerra.

Buon otto marzo a tuttə.

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