PREVIOUSLY ON LE VOSTRE EROINE: dicevamo di cultura dello stupro e di Mitologia.
Dicevamo di Mitologia perché è la narrazione umana alla base di tutto il sistema sociale occidentale. Il terreno sul quale abbiamo costruito il Diritto, la Democrazia, la pedagogia, le religioni. Tutti quei sistemi insomma, di gestione ed educazione del bambino e della persona adulta.
E dicevamo di Cultura dello Stupro perché la Mitologia ci racconta di come il maschio ancestrale, il patriarca della società, potendo scegliere quale imprinting donare alla narrazione di sé stesso, quale immagine imprimere nei secoli dei secoli come esempio per i propri figli, abbia scelto quella di un dio stupratore.
Quella del maschio onnipotente, sanguinario, guerrafondaio, truffaldino e incapace di rapportarsi alla femmina. Incapace di affrontare il rifiuto, incapace di conviverci. E che si auto-convince allora, che la sua foga sessuale sia Amore: la chiama e ce la racconta così. La tramanda così per migliaia di anni, e ce lo dimostra ricompensando molte delle sue vittime con denaro, potere e figli.
Siam partiti spessoni, eh? Seri un bel po’.
Pardon. Adesso ci ridimensioniamo un attimo, anche perché oggi vi voglio solo raccontare delle storie. Le storie delle donne che vi ho nominato nell’articolo madre di questo (il nostro è un blog matriarcale, si).
Le loro sono storie che secondo me, meritano di essere raccontate ancora. Ma come possiamo raccontarle oggi, con gli strumenti che abbiamo e che ci permettono di leggerle per quello che sono veramente: non più simbolo di erotismo, seduzione, fascino, mistero, gioco, gioia, e meno che mai, amore.
Come sempre, anche le loro storie mi hanno fatto ripensare alla me bambina, perché tutte loro c’erano. Ci sono sempre state, splendide, luminose, nude, bellissime, lussuriose. Alcune le tenevamo appese in casa stampate su poster di carta, alcune le ricopiavo su un foglio schiacciando il libro al vetro della finestra, oppure facevo mucchietto di tutte le lenzuola, le trapunte e i foulard che trovavo, e mi travestivo come quelle immagini.
Altre le assorbivo nelle gite ai musei.
Da bambina mi piaceva andare ai musei perché significava che ad un certo punto, ci saremmo seduti nel caffé a fare merenda, oppure un pranzo di sandwich confezionati all’insalata di pollo, e mi sarebbe stata concessa una fetta di torta con un bicchierone di te.
I bar dei musei sono luoghi sospesi per me, mi piacciono di una maniera particolare: quasi sempre luminosi, tutti con lo stesso odore di caffé mediocre in qualunque angolo della terra, e i tavolini in cui, anche se sei da sola, nessuno pensa niente di te perché sei in un museo e quindi stai sicuramente facendo qualcosa di prezioso come studiare, imparare, cercare, qualcosa insomma che è fondamentale fare da soli per via della concentrazione.
E poi, dei musei mi piacevano tutte quelle gigantesche donne nude, mi piaceva che sembrassero davvero allegre: danzavano, ammiccavano, poltrivano felici senza un problema al mondo.
Volevo certamente diventare una di loro.
Mi piaceva che fossero nude perché per me i vestiti sono stati sempre sinonimo di scomodità, di limite: stai seduta composta che ti si alza la gonna. Non correre, che ti si alza la gonna, non incrociare le gambe che ti si alza la gonna. Lasciamo stare i collant che ti bloccano la digestione mentre ti trascinano le mutande in mezzo alle chiappe creando un sottovuoto dal quale è impossibile liberarsi. Poco meglio i pantaloni comunque. E’ proprio l’avere delle questioni che ti si aggrappano al corpo per stare su, che stringono, si arrotolano, salgono, cadono, e l’estate…d’estate, quando ci sono 35 gradi, che fare per stare meglio? Vestirsi. Coprirsi…Mai capita sta faccenda.
Questo tacito accordo tra umani adulti secondo il quale se li copri, il prossimo tuo fa finta come te, che nessuno abbia degli organi genitali.
– Cosa c’è sotto i vestiti?
– E chi può dirlo signora mia!“
Insomma, la bambina che ero si trovava spaesata davanti a queste faccende che gli adulti prendevano molto sul serio, e quindi, sulle panchine spesso imbottite dei musei, ero assai felice di tutta quella spensierata nudità.
Non mi interrogavo sulle storie che quelle immagini raccontavano, perché le loro storie me le costruivo io.
Ero così innamorata di loro che poi ho scelto di studiare la Storia dell’Arte e la Conservazione dei Beni Culturali.
E siccome il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, alla fine, le loro storie le ho scoperte.
Cominciamo da lei che sicuro, almeno su una tazza, ve la siete beccata.
La Danae di Klimt. Dalle foto raga non si vede, ma brilla. E’ d’oro.

Danae è una principessa, ma non è per questo che Klimt l’ha ricoperta d’oro…E’ la principessa di Argo, e quando è ancora una pupina in fasce, suo padre riceve una profezia che la riguarda: i figli che Danae metterà al mondo, in qualche modo, si renderanno responsabili della morte del nonno. Esso, lui, il Re di Argo, padre di Danae. Che fare?
Questo padre, pover’uomo, non ha cuore di uccidere la sua creatura…ah, l’amore paterno! Quindi, si limita a rinchiuderla nella torre più alta del castello e buttar via la chiave.
Danae se ne cresce così, rinchiusa nella sua torre, sola, finché un altro uomo giunge a decidere della sua vita: quel bricconcello di Zeus, che tutto può e tutto vede, quando decide di farsela. A quel punto, come da sua abitudine, Zeus non si propone alla ragazza portandole fiori e cioccolatini, ma raccatta tutto il coraggio che ha in corpo, e da vero eroe, da vero Dio onnipotente quale è, decide di assecondare la sua ingestibile paura del rifiuto trasformandosi in pioggia dorata per scivolare sul corpo della ragazza, entrare nella sua vagina, e SBAM! Incinta!
Ne nasce Perseo, quello che taglierà la testa a Medusa e sposerà Andromeda, in pratica uno dei Cavalieri dello Zodiaco, e ne nasce anche la prima golden shower della storia (se non lo sapete, non ve lo dirò io che tipo di pratica sia la golden shower, scopritelo nell’internet.).
Andiamo avanti che non è finita.
Quando il padre viene a sapere della gravidanza della figlia Danae, la prende, la ri-rinchiude, questa volta in una cassa di legno insieme al bambino, e la butta in mare.
Però, Danae e suo figlio Perseo sopravvivono. Cosa ne diviene poi di loro non è dato sapere, ci sono diverse leggende, diversi finali, però insomma, tutto è bene quel che finisce bene: la fanciulla ha avuto l’onore di essere “amata” dal dio, e la gioia di diventare madre dell’eroe, quindi ancora oggi, noi la ricordiamo così: gote rosse, gambe aperte e foglia d’oro in uno dei quadri con più merchandising della storia dell’Arte.
Zeus, il supermega re supremo di tutti gli dei, è insomma l’emblema assoluto della filosofia del boys will be boys, il detto americano diventato simbolo della tendenza secolare a giustificare la violenza maschile come naturale, e perciò immutabile ed inscindibile. I maschi son maschi e non c’è niente da fare, solo “ragazzi col cazzo in mano”. Noi, si deve far spallucce e andare avanti, mute e grate se il loro desiderio ci sceglie, se veniamo benedette col regalo della maternità che fiorisce anche dalla violenza.
Così, i nostri padri ancestrali, si sono premurati di raccontarcene tante di storie come quella di Danae, di modo che ci entrasse bene in testa quale fortuna sia essere stuprate, e cioè scelte da colui che fatica tutto il giorno a far le cose serie, colui capace di comprendere e perciò decidere le cose del mondo. Lui che non ha tempo per corteggiare, curare, parlare, conoscere, lui che regge il peso del mondo solo sulle sue spalle, e comunque fa con noi quel che può, tra un’impresa epica e l’altra. In cambio ci chiede solo il silenzio, ci chiede solo una casa pulita e un pasto caldo.
Tutto sommato si può riassumere così tutta la mitologia, da quella greca, a quella romana, a quella biblica, con tutte le influenze che si sono trascinate dietro nell’immaginario collettivo.
Cerchiamo altre storie.
Antiope.

Antiope è un’altra donna la cui vita esiste solo in funzione delle fantasie dei maschi che la circondano: è la figlia del re di Tebe, e Zeus (per i greci) o Giove (per i romani) qual si voglia, si innamora di lei. Questo è quello che leggerete nella maggior parte delle trascrizioni della sua storia: “viene amata da Zeus”. Solo che no. Zeus non si innamora, l’amore non c’entra mai in queste storie, Zeus vuole fare del sesso facile nel corpo di questa donna. Così, per far presto, si trasforma in un satiro, orrendo mostriciattolo arrapato, e in quella forma raccapricciante, riesce a sedurla. Solo che no, non la seduce, la stupra. Lei resta in cinta di due gemelli.
Se il padre lo viene a sapere la ammazza, quindi scappa nella città di Sicione.
Ma il padre lo viene a sapere e, per il dolore che LEI gli ha procurato perdendo la verginità, lui muore. Cornuta e mazziata: c’ha pure sul groppone la morte del padre, che però, prima di esser colto dal crepacuore, fa in tempo a lasciare al fratello, zio di Antiope, il compito di “vendicarlo”. Di che? direte voi…vallo a capire.
Antiope intanto da alla luce i gemelli del destino e, per non saper né leggere né scrivere, li da “in gestione” ad un pastore che passava di lì. E ben che fa, perché lo zio la trova, dichiara guerra alla città di Sicione, se la riporta a casa e la tortura. Poi la regala come schiava a sua moglie, Dirce, così quando i gemelli ormai adulti la ritrovano, non uccidono lo zio guerrafondaio e violento, ma Dirce. Per ragioni che non stiamo a spiegare, la morte di Dirce suscita l’ira del dio Dioniso che per vendetta, rende folle Antiope…
Nella sua follia Antiope riesce comunque ad incontrare il buon Foco che la sposa, il ché, per qualche ragione, pone fine all’ira di Dioniso che lascia in pace la nostra mitologica donnina.
Cioè, ma voi vi state rendendo conto del casino che han fatto su questi qui, perché la poverina è stata vittima di uno stupro? Morti di crepacuore, figli abbandonati, femminicidi, persino una guerra, così, perché no?
Ma andiamo avanti con le fiabe.

Europa. Figlia di Agenore, re dei fenici.
“Colpito dalla sua bellezza” Zeus le si avvicina mentre è alla spiaggia, e lo fa sotto forma di / RULLO DI TAMBURI / torooo!!!! Questa volta è un toro. Bianco. Insomma, Europa è alla spiaggia, il toro bianco le si avvicina mansueto, e lei gli si siede in groppa. Oplà, il toro parte al galoppo e solcando le onde del mare, la porta fino a Creta dove…Europa da alla luce Minosse e Radamanto. Fatto tutto, Zeus se la ritrova sulle croste: l’ha portata su un’isola, questa c’ha i neonati, quindi…la dà in sposa niente popò di meno che al re di Creta. Europa è quindi, grazie a Zeus dio onnipotente, madre e regina. Un’altro splendido happy ending.
Elettra Pleiade.

Questa Elettra non è quella del complesso di Elettra, né il genio dietro TE AMO TE QUIERO TEQUILA.
Questa è una storia di sorelle e di stelle, infatti, come il toro bianco che rapisce Europa, questa Elettra e le sue sorelle, splendono in cielo ogni notte: le Pleiadi.
Le Pleiadi erano le sette figlie della ninfa del mare Pleione, e del titano Atlante. Erano sorelle anche con Calipso, Iante e Iadi, che però vivevano dislocati.
Secondo il mito “il dio Zeus provava un forte amore nei confronti di Elettra e altre due delle sue sorelle”…si…lei, e altre due…tanto amore che Elettra, pur di sfuggirgli si nasconde in un tempio pensando: “questo è un dio, non vorrà mica far cose zozze proprio nel tempio che venera lui e tutti i suoi?” E invece…lui la scova e la stupra. La storia di Elettra ha un particolare veramente gore che altre non hanno: durante la violenza lei sanguina, e il suo sangue cola sulla statua di Atena che, ovviamente, s’incazza con lei, e le fa cose.
Dallo stupro subìto da Zeus nasce Dardano, capostipite della dinastia di Troia, quella che poi Elena, il cavallo, etc…insomma solo sciagure. Infatti, Elettra che segue dal cielo le vicende terrene del figlio e della sua lunga stirpe, al termine della guerra di Troia, è così addolorata per l’immane spargimento di sangue (ah, le donne!) che si consuma, e consuma col dolore le sue sorelle, fino a farle diventare stelle.
Non sono finite le vittime di Zeus, ma vorrei raccontarvene anche altre, allora passiamo a vittime di maschi generici, terreni, restando pure sempre in “famiglia”.
Andromaca.

Andromaca significa letteralmente colei che combatte gli uomini…e insomma, non partiamo benissimo manco qui: figlia del re di Tebe, viene mandata a Troia per essere la moglie di Ettore. Il suo è un matrimonio combinato, però i due si innamorano. Si innamorano tanto. Solo che lei, più che combatterli, i suoi uomini è destinata a perderli tutti nelle guerre senza fine che scatenano gli uni contro gli altri.
Perde il padre e tutti i suoi fratelli. Perde Ettore, per mano di Achille, dopo averlo scongiurato di non sfidarlo. Ettore però le ricorda di non intromettersi nelle cose dei maschi e và alla guerra. Perde anche il figlio, Astianatte, che fa una fine atroce: viene gettato dalle mura della città di Troia da Neottolemo che decide di seguire il consiglio nientemeno che di Ulisse.
Una volta finita la guerra, gli uomini Achei si spartiscono le donne di Troia, e sarà proprio Neottolemo, l’assassino di suo figlio, a fare di lei la sua schiava e concubina.
Un’altra vita completamente violentata e annientata dal capriccioso gioco della guerra.
Pug?

Se vuoi ti puoi fermare, farti un te. Guardare una puntata dei Simpson. Riprendere un altro giorno.
Io vado. Te ne scrivo ancora qualcuna…
Ci tengo ancora a Persefone, o Proserpina per i romani sempre perché si deve tramandare.

Persefone é la figlia di Zeuz e non le tocca un destino diverso da quello che il padre infligge a chiunque altra. Era un vizietto di famiglia tra l’altro, perché lei resta vittima proprio del fratello di suo padre: il suo stupratore è lo zio, Ade, re degli inferi.
Un giorno, mentre ancora fanciulla, che vuol dire bambina, raccoglieva fiori con le amiche, Ade la trae in inganno attirandola con uno splendido narciso. Quando lei si avvicina per raccoglierlo, sotto al fiore si apre una voragine che la inghiotte e la fa cadere dritta negli inferi. Lì, Ade la costringe a mangiare i semi di un melograno legandola per sempre al suo mondo e facendo di lei la sua sposa bambina, naturalmente contro la sua volontà.
E’ solo a causa del dolore che prova sua madre, Demetra, che Zeus interviene in questa situazione altrimenti del tutto conforme, imponendo al fratello di far trascorrere alla bambina sei mesi all’anno sulla terra: la primavera.
La primavera è la vittima di uno stupro che respira dall’orrore della sua prigionia infinita, per sei mesi all’anno.
Dafne.

Dafne mi strazia il cuore perché lei aveva proprio scelto di dedicare la sua vita al godimento della libertà. Per farlo era diventata sacerdotessa della Madre Terra, aveva fatto voto di castità, e aveva scelto di vivere in una comunità di sole donne. Ce l’aveva messa proprio tutta per proteggersi, per tenersi al sicuro.
Dafne è una che non si fa trattare a caso e che non accetta la violenza. Così, quando la prima volta viene aggredita da un uomo che le sia avvicina travestito da donna, fa squadra con le compagne, e lo seccano.
Solo che in un mondo come il suo, la scampi una volta sola, e non agli Dei capricciosi.
Non ai capricciosi figli di qualche anziano sovrappeso con smanie di onnipotenza e barba bianca. Si, giuro. Anche a Dafne va così.
Sulla sua via capita Apollo, il biondino riccioluto e viziatello figlio di / RULLO DI TAMBURI / Zeus. Anche qui, i testi e i siti si prodigano di “fu la prima mortale amata da Apollo” e anche qui, Dafne si sentì talmente amata da chiedere aiuto alla madre perché la trasformasse in una pianta di alloro, pur di sfuggire all’amore di Apollo.
La sua è tutta una storia di donne che insieme sono felici, che insieme stanno bene, e che insieme organizzano la loro vita in modo da sfuggire alla violenza maschile. Donne che si aiutano le une con le altre, in cui rifugiarsi, a cui chiedere aiuto.
E di donne che di fronte agli uomini, per vivere, devono rinunciare al corpo e all’umanità.
Arriviamo a Elena. Anche Elena è una storia di più donne. Almeno due: lei, e sua madre Nemesi.

Elena è difficile da raccontare….cioè, ci siamo che troia è diventato un insulto per colpa sua?
Se no, te lo dico io: è diventato un insulto per colpa sua, prima era solo il nome di una città. Allora, andiamo a vedere che ha combinato.
Due premesse:
1 / c’è della confusione sulla genealogia di Elena, quindi facciamo che ci raccontiamo la versione più in voga.
2 / Elena è la Eva dell’antichità, è cioè l’archetipo, l’immagine simbolica della Donna. E infatti come Eva, causa al mondo degli uomini guerre e distruzione. Questo è lo specchio che il patriarca ha creato della sua immagine, il dio stupratore, per essere certo di giustificare fino in fondo le sue azioni.
Quindi, analizzando l’archetipo che i nostri padri culturali hanno creato dell’uomo e della donna, abbiamo: il maschio, che è un dio, ed è uno stupratore a causa della femmina, che con la sua bellezza irresistibile provoca violenza e morte. Ecco fatto.
Allora, Elena è figlia di / RULLO DI TAMBURI / Zeus! E di Nemesi. Qui tralascio l’opzione in cui Nemesi è ella stessa figlia di Zeus, per preferire quella in cui Nemesi è una dea primordiale, figlia della Notte. Nemesi è in ogni caso anche lei, vittima di stupro da parte di Zeus. Per sfuggirgli infatti, si trasforma in tutta una lunga lista di bestie, ma quando lui la becca sotto forma di cigno se la fa lo stesso perché il buon vecchio, oltre a incesto e stupro, non disdegna un po’ di zoofilia che è come il fritto, una volta ogni tanto rinvigorisce il fegato.
Insomma, com’è come non è, Elena nasce da un uovo.
Eva c’ha la mela, Elena c’ha l’uovo, sempre de palle se parla.
Nemesi però se la lega al dito sta cosa dello stupro, e fa di Elena una creatura così bella da far leva su quel certo problemino di autocontrollo, e spingere gli uomini ad ammazzarsi tra loro per averla. Ma non degli uomini a caso, non tutti gli uomini della terra: i maschi della stirpe di Zeus, cioè i troiani…vi ricordate lo stupro di Elettra? Sempre Zeus, ne nasce Dardano capostipite dei troiani…eccoci qui.
Eppure, la Storia non elegge Zeus a cattivo primordiale, non fa di lui la causa della guerra di Troia, della morte degli Eroi. Non fa di lui l’icona archetipica del cattivo, la causa di tutti i mali. La Storia non condanna lui e la sua stirpe di maschi, la sua stirpe di padri assassini e incestuosi. No. Quelli sono gli Eroi.
Mentre l’icona archetipica del cattivo si chiama NEMESI.
Cioè, capito? Se la son fatta così bene che alla fine, manco questa è colpa loro! Nemesi sceglie la vendetta, come tutti gli eroi, ma non è un’eroina.
Così, Elena viene al mondo dalla violenza, e condanna il mondo alla violenza.
Anche lei, finisce nella Storia come archetipo della troia.
Elena nasce dea, ma cresce terrestre: Nemesi la affida infatti alle cure di Leda e suo marito Tindaro, regnanti di Sparta.
La sua, quella della puttana per eccellenza, è una vita di stupri e violenze sin dall’infanzia: è troppo bella, e ancora bambina viene rapita da Teseo, altro eroe. Evidentemente riescono a riportarla a casa perché a Elena viene concesso il lusso di scegliersi il marito: quando viene considerata in età infatti, tutti i capi greci si fanno avanti per avere la sua mano, così suo “padre” Tindaro, onde evitare che si creino problemi nel combinarle il matrimonio, lascia che faccia tutto da sola, vedi mai. Indovina su consiglio di chi? Ulisse! L’eroe per eccellenza che come abbiamo già visto con Andromaca, fosse stato zitto mezza volta…e invece.
Tindaro e Ulisse organizzano allora un rito sacrificale: uccidono un cavallo…eh, raga? Un cavallo…Elena di Troia (vi sto sgomitando)…ben, uccidono un cavallo e fanno giurare sul suo sangue tutti quei capi che sognavano la mano di Elena, che non si sarebbero mai fatti la guerra, ma che anzi, in caso qualche foresto fosse giunto a rubare la fanciulla, tutti avrebbero aiutato il fortunato da lei scelto, a riprendersela a costo della vita.
Elena sceglie Menelao, principe di Micene che sposandola diventa re di Sparta.
Fine.
Ennò! L’hai visto il quadro che ti ho messo sopra? Ti pare Menelao quello li? Bé, non lo è.
E’ Paride, quello che non riesce a tenerselo nelle mutande. Anche lui è il figlio viziatello del solito anziano barbuto…insomma, del re di? TROIA!!!!! Ooooooh là! Ci siamo!
Paride rapisce Elena mandando in vacca il patto supremo stipulato dalla nazione intera.
Da qui è tutto un casino di inventive: nell’Iliade, cioè la versione ufficiale, lei viene costretta a sposare Paride, che disprezza, e dopo la morte di questo, pure il fratello Deifobo, così a caso.
Nell’Odissea invece, Elena torna dal marito, ma poi tutti la odiano.
Insomma, in un modo o nell’altro, bene non va.
Sta di fatto che alla fine, Elena si ritrova in un quadro di David, non il parrucchiere ma uno dei pittori più significativi e rappresentativi del XVIII secolo, anche lei con le guance rosse, l’atteggiamento lascivo e la tettina ammiccante, ad imperitura memoria del fatto che, se non fosse nata bella, nulla di tutto questo sarebbe successo, e che, anche se ti ha rapita e violentata fino al giorno della sua morte, la lusinga di un maschio è, in fondo, sempre godibile.
Non sono tutte, queste nostre madri ancestrali. Non sono tutte le anime e tutti i cervelli che non hanno avuto diritto di parola, di narrazione, di eredità. Queste che vi ho raccontato:
Elena
Dafne
Persefone
Antiope
Europa
Elettra
Andromaca
Danae
sono pochissime tra tutte quelle che potete leggere in tutti i manuali, libri, sussidiari, raccolte, siti, articoli, film.
Ogni tanto nel corso di questo articolo, ho trascritto in corsivo dei brevi passaggi su cui sono capitata tra i vari siti e carta stampata che ho usato durante le mie ricerche. Brevi passaggi tipo questo:

Passaggio della descrizione di Antiope dal Dizionario di Mitologia Classica ed. Garzanti, che mi regalò mia madre quando andavo ancora alle elementari. Perché i Miti si racontano e si tramandano come le fiabe. Hanno la stessa funzione: insegnare.
E quello che ci hanno insegnato, e che continuano ad insegnarci, è che lo stupro è amore.
Lo stupro, ma anche lo stalking, le molestie, l’insistenza, tutto il pacchetto in fondo, sono espressioni dell’Amore. Dell’amore maschile che è dirompente, incontenibile, forte, virile, e così spontaneo, appassionato e naturale, che di fronte alla nostra forma, non può, per sua stessa natura, essere represso. Contenuto. Gestito. Se non lo desideriamo, non ci resta che coprirci, e se non basta neanche quello, bé…di chi è la colpa?
Nell’articolo precedente dicevamo che la Rape Culture, la Cultura dello Stupro non è una piccola parte della nostra Cultura, ma piuttosto uno dei trattai principali e più caratteristici di essa, e che per liberarcene abbiamo da rivedere tutto. Abbiamo da rivedere i nomi che diamo alle cose, come insegnano ai bambini a chiamare, a dire quello che sentono: sento rabbia. Sento amore. Questo mi fa stare bene. Questo mi fa stare male.
Potremmo partire allora dalla parola AMORE. Cominciare veramente ad associarne il significato al CONSENSO. Ad associarne il GODIMENTO, al consenso: io godo dell’amore, se la persona alla quale lo rivolgo, ne gode con me.
Potremmo cominciare ad esplicitare che il fremito che un NO, che un rifiuto, provocano in noi, non è il brivido della caccia, il piacere della conquista. E’ solo un po’ di DOLORE, e che passerà, che succede a tutti, che va bene così. Che non vuol dire che non vali, che non sei abbastanza. Vuol dire solo che quella persona lì, prova qualcosa di diverso, e che anche questo va bene.
Potremmo cominciare ad insegnare che l’amore non si può PRETENDERE. Ma che comunque ce n’è per tutti, che si nasconde nei posti e nei momenti più imprevedibili.
E poi, andare avanti, andare dentro e sotto gli strati di poesia ed estetica che millenni di insicurezza maschile ci hanno costruito sopra, insegnando che se ti fa stare male, non è AMORE. Se ti alza le mani non lo fa per te, per far migliorare te, per far stare meglio te, non lo fa perché ti ama.
Ho come la sensazione che partendo da AMORE e chiarendo la sua identità, troverebbero poi, come conseguenza diretta, una nuova dimensione anche le identità di RABBIA e VIOLENZA.
Ho intorno un sacco di bambini in questa fase della vita. I più sono ancora davvero minuscoli e si accontentano di gesti e suoni, ma quando presto sarà il nostro turno di insegnargli ad usare le parole, vorrei essere la generazione capace di prendere una direzione diversa. Senza omertà, senza soggezione mal riposta, senza inutile reverenza.
Voglio salutarvi con un’ultima storia, quella di Lucrezia, perché è forse la più rappresentativa di tanto di ciò che ha riguardato sempre la vita delle nostre “madri”. E anche la nostra.

La sua storia è un mito nostrano, un mito Romano tramandatoci da uno dei grandi storici delle nostre origini, Tito Livio, ed é la storia della cacciata dell’ultimo re di Roma, e della conseguente nascita della Res Publica Romana.
C’è quindi Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, e c’è…il suo figliolo, Sesto Tarquinio.
Sesto Tarquinio baldo giovine, com’era compito di ogni uomo che si rispetti, spendeva le sue giornate per mari e per monti ad espandere l’impero. Durante uno dei vari assedi, precisamente quello della città di Ardea, per passare il tempo, lui e i suoi prodi, si inventano un gioco, lo stesso gioco che Shakespeare riprenderà poi ne La Bisbetica Domata: il gioco della moglie più devota. Probabilmente lo fanno con meno entusiasmo dei maschi shakespeariani, perché solo uno, Collatino, è pronto a scommettere che nessuna moglie possa battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà. Tutti insieme allora, i nostri burloni, tornano a Roma col favore delle tenebre e beccano Lucrezia… a tessere la tela, proprio come Penelope.
E questa cosa del telaio deve davvero essere supermega arrapante per i maschi perché è qui che arrivano i guai: il principino, Sesto Tarquinio, resta folgorato da cotanta bellezza e, parole di Tito Livio, provata castità. Quindi via -fu preso dal desiderio di averla a tutti i costi-
Così, il nostro principe, decide di agire: aspetta qualche giorno e mentre il marito è via alla conquista del mondo, fa visita alla signora.
Lucrezia è sola e ignara delle vere intenzioni di quel simpatico amico di famiglia, così naturalmente lo accoglie nella sua casa, gli da mangiare e una stanza in cui dormire. Lui, sempre più infuocato di desiderio, fa ciò che si confà al principe, all’Eroe, così entra nella stanza di Lucrezia nel cuore della notte, e puntandole la spada alla gola le dice:
«Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!» |
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 58.) |
Muta, o muori. Questo si che è un grande classico della nostra cultura.
Poi prova a “sedurla”, a far accadere insomma un rapporto sessuale che nasca spontaneo…solo che…Lucrezia…non sembra troppo presa bene, quindi Sesto la minaccia dicendole che se non gli si concederà, lui la ucciderà. Ma non solo. Una volta uccisa, sgozzerà uno dei suoi servitori, e lo sistemerà nudo, accanto a lei, nel suo letto, disonorandola agli occhi del marito e della famiglia.
Così alla fine, Lucrezia gliela dà e lui riparte, per dirla con le parole del nostro Titone, SODDISFATTO.
Lucrezia non ha scampo: in un modo o nell’altro dovrà morire come diretta conseguenza degli appetiti sessuali di questo ragazzino col cazzo in mano: o sarà lui a farlo, o ad ucciderla sarà il marito se mai verrà a sapere che lei non si è mantenuta casta.
Così decide che non lascerà a nessuno questo potere, se non a sé stessa. Lucrezia sceglie la più estrema autodeterminazione: convoca urgentemente il marito e il padre. Davanti a loro confessa l’accaduto, e prima che i duei uomini della sua vita abbiano il tempo di agire in qualsiasi maniera, lei si trafigge il cuore con un pugnale.
Si uccide.
Per non lasciare che siano altri a farlo.
Lei non vuole sentire parole da loro su quello che le è accaduto. Non vuole giustificarsi. Non vuole pagare la moneta degli uomini. Li lascia davanti a quello che è stato, ed esce di scena. Che se la sbrighino tra loro.
Loro ovviamente scelgono la guerra, la morte, e il potere. Uccidono Sesto, il padre e chissà quanti altri, e si regalano la gestione dell’impero.
Anche qui, se andate a leggere questo racconto dalla pagina Wikipedia a lei dedicata, leggerete d’Amore:
“Mentre Sesto le dichiarava il suo amore, alternando suppliche a minacce, la povera donna, colta da terrore, capì che rischiava la morte.“
Si. Sono proprio, davvero convinta che si debba partire dalla parola AMORE.