2023: Pane&Parolacce

2023.

Credo significhi che questo blog sta per compiere due anni.

Non sono tanti gli articoli che ci ho pubblicato, ma messi per esteso in un file di scrittura e contati per pagine cominciano a fare una modesta figura. Sono in qualche modo qualcosa, una cosa che dentro la mia testa si struttura sempre più nitidamente. Aggiungici poi qualche approfondimento, qualcuna di quelle cose che volevi tanto dire ma che ti è venuta dopo, qualche altra di quelle che – è un blog – e quindi elimini perché non c’è tempo, non c’è spazio per citare il sommo. Insomma…

Buon 2023.

Mi sembra di aver sentito che il 23 è un numero mistico, qualcosa che ha a che fare con le stelle, con la magia…o con la volontà, che forse è un significato che abbiamo spesso confuso. Io non riesco mai a dichiarare i miei propositi a voce alta perché penso sempre: e se poi muoio? Ho il terrore che tutti si mettano a pensare poverina. A dirsi tra loro: poverina. Con aria corrucciata e sollievo: anche sta volta non è toccato a me. E’ un terrore misto ad incazzatura simile a quello che provo all’idea di sentirmi dire brava mentre partorisco: come se fosse una situazione che implica più o meno capacità, volontà, possibilità o scelta. E’ un terrore che ha a che fare con le parole…coi significati che le persone tendono ad affidare alle parole quando gli avvenimenti sono inevitabili, imprevedibili, naturali. E’ un terrore che ha che fare con il pudore, con l’essere un animaletto delle foreste, come mi chiama Gloria. Con la proprietà privata interiore, come dice Vasco Brondi.

Insomma decido che il 23 sarà un anno davvero tanto produttivo, l’ho detto. Psicomagia. E se invece muoio dite cazzo, dite vaffanculo, dite le parolacce, le parole sporche, perché la morte dei vecchi è una festa di vita, ma la morte dei giovani è una merda, cazzo. Niente poverina.

Buon 23.

Il significato che massivamente diamo alle parole, forse è la cosa a cui penso più spesso. Insieme all’essere una principessa vampira con l’aspetto di Lana DelRey che vive in un castello in un luogo in cui piove sempre, e i tuoni e i fulmini…e insomma, quando non penso al significato che diamo alle parole, davvero molto spesso costruisco scenari a tema nella mia testa come i giochini delle pubblicità su Instagram, ma senza uomini che mi lasciano all’altare o che si eccitano annusando le scoregge di un’amica…hai letto bene, sì. E se per caso sei unə feticista delle scoregge non sentirti giudicatə, è solo una rappresentazione a cui non siamo abituatə e che tendiamo a non associare all’erotismo, questo la rende canonicamente “comica” anche se non è il feticismo di per sé ad interessarmi ma appunto, il significato che attribuiamo alle azioni e alle forme. Insomma si, ho scritto SCOREGGE. Pensi che stia scherzando? Non ti sono mai usciti mentre scrolli? A me ora ne escono tipo 20 al giorno perché l’algoritmo ha capito che mi fermo e li guardo, li screeshotto e li invio tipo a tutti i miei contatti quindi me li spamma costantemente. Ma tieni, tieni, te ne mostro subito uno:

Questi giochini hanno titoli diversi e scenari diversi, spesso si chiamano mansionqualcosa, castlequalcosa, makeoverqualcosa…ma la dinamica è una sola: una donna rappresentata secondo quelli che comunemente ci insegnano essere canoni di NON appetibilità, becca il marito con un’altra. Non appetibilità vuole solo dire con un corpo che vive di natura e non di arteficio. Anche qui lo scenario varia dal semplice limone, all’annusare scoregge o aliti fetenti, sempre però di un’altra donna che rappresenta invece i canoni che comunemente ci insegnano essere canoni di appetibilità, quindi estremamente artefatti: capelli piastrati, corpi magrissimi, depilazioni, abbondante trucco, pizzi ed orpelli.

Entrambi canoni unicamente estetici, fisici. Entrambi tarati sullo sguardo maschile.

Al caso della prima donna, quella che comunemente definiremmo La Cessa insomma, si aggiunge, in nove casi su dieci, l’appendice figliə.

Fun fact: La cessa in questi giochi è sempre “migliorabile”, o meglio, adeguabile agli standard con il dovuto ammount di sofferenza e costi.

Di quelle cesse insomma alla Anne Hataway in film come Pretty Princess o Il Diavolo Veste Prada, cesse per finta, o meglio…per “pigrizia”: infatti lo scopo del gioco è quello di perdere peso, strapparsi i peli, truccarsi, entrare nel vestitino corto e rosso, e far rosicare il maschio alpha. Insomma, lasciar andare tutto quello che ti sei concessa per libertà invece che per sofferenza. Lo scopo dell’eroina di questi giochi è rendersi più attraente possibile per il maschio che l’ha lasciata subito dopo il parto di cui era co-responsabile. Fare questo però implica dedizione e sofferenza, privazione e dolore fisico.

Per essere bellə infatti, ci insegnano che si DEVE soffrire. Niente a che fare con la natura individuale di ciascunə, ma solo con lo sforzo più o meno adeguato, questa la misura della “pigrizia”, all’omologazione.

Dedizione e sofferenza, privazione e dolore fisico, per non parlare delle significative spese economiche di cerette, trucchi, parrucchieri, calze collant che si bucato al secondo 2, e i tacchi. I tacchi: mezzi trampoli a forma di cono, non per far ridere i bambini, no…per camminarci fingendo che sia del tutto normale.

E tutto questo “per amoreeeeee” direbbero i tizi delle canzoncine e duemila anni di Storia.

E INVECE NO!

Diciamo parolacce insieme, dai: INVECE NO, CAZZO!

Cominciamolo così questo 2023, sfacciatə, diseducatə…anzi, autoeducatə.

No, cazzo…e…cazzo la prendiamo come una parolaccia femminista perché pone il pene sotto luce negativa tirandosi dietro il patriarcato tutto, o…?…oddio, boh. Pensiamoci…parliamone…oppure no. Il concetto mi sembra cristallino.

NONE! NAIN! NON! NON E’ AMORE.

Non è Amore ma è il duemilaventitrè, e allora cominciamolo diseducandoci.

Questo è l’augurio che ci faccio per questo anno nuovo: diseducarci insieme a queste estenuanti convenzioni sociali.

Non stanno funzionando.

Non stanno funzionando altrimenti al governo non avremmo gente che si batte per accrescere le disuguaglianze, non avremmo 20 gradi a gennaio, milioni di video di skin-care su TikTok ma zero f**k given per i nostri polmoni. Non avremmo tredicenni che si ammazzano perché a scuola li chiamano froci. Perché le istituzioni li chiamano schifezze, abomini. Non avremmo dodicenni portati a spasso in passeggino con la punta delle suole che si consuma strisciando sull’asfalto. Non dovremmo denunciare i programmi televisivi agli organi di tutela.

Allora cominciamo ripetendolo insieme per che cosa soffriamo tuttə da millenni:

PER COSTRUTTO SOCIALE.

Tutto finto. Niente di reale. Fuffa. Fumo. C’hanno fregatə.

Occhei. Dai…

Ecco.

Un bel respirone. Soprattutto io.

Daje.

Ascolta: ci auguro di diseducarci.

Ma non in maniera instagrammabile.

Non in maniera estetica.

Ci auguro di diseducarci in maniera lenta. Privata. Che vuol dire fermarsi un attimo e prendersi il tempo di comprendere. Osservare. Studiare. Pesare le parole non prima di parlare, ma prima di decidere che siamo d’accordo con quello che stiamo pensando.

Ovviamente lo so cos’è successo sabato scorso in televisione. L’ho presa larga.

Sono partita dai giochini di Instagram perché stilizzano il principale modus operandi della nostra cultura: per ottenere qualcosa. Attenzione, qualsiasi cosa, bisogna soffrire. Come dicono al governo adesso: bisogna gli schiaffi, le umiliazioni, la privazione del sonno.

Ma tutto questo, se ci si ferma un attimo. Se davvero si pensa un attimo al significato reale e non a quello veloce, significa qualcosa di leggermente diverso. Significa DIMOSTRARE.

E dimostrare è un’azione esterna, esteriore. Anche dimostrare a sé, lo si fa secondo canoni acquisiti, e quindi per gli altri.

Io sono la prima, da sempre. Scrivo, faccio documentari, spettacoli, sono cresciuta in una specie di comune di fricchettoni che mi ha lasciata libera di conoscere il significato di omosessualità, diversità, accoglienza, in decenni in cui la principessa Diana doveva andare in tv per mostrare che stando seduta nella stessa stanza di un malato di AIDS non l’avrebbe contratto, decenni in cui mia nonna mi insegnava a non infilare le mani nei cespugli ai giardinetti perché c’erano 9 possibilità su 10 di pungersi le dita su una siringa usata.

Eppure. Soffro di problemi alimentari da quanto avevo tredici, quattordici anni. Io sono alta un metro e cinquantanove, non arrivo a 60, sul serio, c’è scritto 1.59 sulla carta d’identità. La signora del comune l’aveva voluto scrivere con un gran sorriso dopo avermi misurata contro il muro, ma lo dico con gioia, era stato molto divertente, un momento di complicità casuale: abbiamo deciso insieme di non approssimare. Sono abbastanza proporzionata, ma potete in maniera forense dedurre dalla mia altezza in centimetri che il mio stacco di coscia non corrisponderebbe mai, neanche oggi, a quello di una modella da passerella. Facile, facile. Soggetto estremamente inflazionato. Quello che nonostante le milioni di cose dette a questo proposito negli anni, io ho però realizzato da pochissimo e che ancora mi lascia letteralmente a bocca aperta, è che sono cresciuta credendo che privandomi, controllandomi, negandomi, cioè soffrendo, io, alta un metro e cinquantanove, avrei ottenuto infine lo stesso corpo di una modella da passerella.

E invece no.

Con quel corpo o ci nasci, o non ci nasci.

E non è un merito.

E non è un demerito.

Non è niente di culturalmente definibile, etichettabile, ma solo l’insieme della chimica e della meccanica necessarie alla vita umana. Dovremmo averne grande cura, non stroppiarlo né da una parte né dall’altra, portarlo a passeggiare, nutrirlo di cose buonissime con la stessa gioia con cui portiamo la macchina all’autolavaggio (questo non so se per tuttə sia un esempio di grande gioia, insomma, immagina uno spazio bianco e mettici una tua grande gioia), dovremmo assicurargli aria pulita, acqua non contaminata. E basta.

Invece le convenzioni, i costrutti sociali che ci siamo trascinatə appresso fino ad oggi ci hanno reso impossibile ognuna di queste cose.

Ma cosa c’entra tutto questo con i miei auguri per questo 2023 di diseducarci, e con quello che è successo alla tv sabato scorso?

Ritorniamo ai giochini di Instagram per l’ultima volta, te lo prometto: come quasi tutte le donne della narrativa che abbiamo incontrato fino a qui, le donne di questi piccinissimi giochi online non hanno alcuna identità se non in relazione al marito/compagno: non hanno un lavoro che consenta loro di prendersi cura di sé, di avere un tetto sopra la testa, cibo, dignità o riconoscimento sociale. Né un po’ di denaro, né una stanza tutta per sé per capirci…Queste donne si scoprono forti nel momento in cui la figura maschile di riferimento viene a mancare e devono tirarsi su le maniche per diventare magnifiche guerriere.

E tu dirai: mbé! Ma è fantastico! Sono giochi sulla scoperta dell’indipendenza!

Se ne hai voglia, se hai voglia di restare ancora un po’, ti propongo di cominciare insieme a prenderci il tempo per diseducarci alle convenzioni. Di farci le prime domande qui, insieme.

Ripercorriamo l’obiettivo che il gioco ci propone: l’obiettivo è quello di guidare la finta cessa attraverso immani sofferenze, così da dimostrare ad un uomo a cui non interessa che lei è fantastica secondo canoni studiati per compiacere solo lui, facendola soffrire moltissimo.

Dà, spariamoci un’altro pug…sta già bevendo poverino…

Insomma questo 23 è cominciato con una specie di tardiva e sonnecchiosa presa di coscienza rispetto ai programmi della Queen della tv italiana. Sembra che dopo il fantasmagorico ventennio, sabato scorso, improvvisamente…OIBO’! Che succede qui?

Eppure…non è andato in onda nulla di diverso dall’ordinario di quell’ambiente, solo informa leggermente più esplicita.

La conduttrice del resto è la stessa che ha inventato i tronisti…qui vorrei l’emoji della faccina con la gocciolina che cade dalla fronte…è la stessa che ha inventato il fast-love: ti mettono su un trono di polistirolo sotto luci bianche da bar sport, rispondi in maniera rigidissima al canone estetico, sei purissima forma, per questo io ti amo, per questo mi innamoro, mi dispero, lotto e ringhio. E più lo faccio, più io ti dimostro il mio struggimento, il mio accanimento, la mia…sofferenza…più probabilità ho che tu mi preferisca ad altrə in un tempo brevissimo, solo per dimostrazione.

Soffrire. Dimostrare.

Oibò.

Sabato scorso una Caterina shakespeariana, ha portato il suo Petruccio in tv per chiedergli di riprendersela anche se ha provato a ribellarsi ai suoi orrendi modi di fare, di trattarla male. Desdemona ha portato Otello in tv per chiedergli di perdonarla, solo che questa Desdemona lo ha tradito…quindi? Ofelia ha portato Amleto in tv perché si sente impazzire: ha provato a scappare ma non ce la fa.

La Queen, il genio, la visionaria della tv italiana non ha fatto una piega. E questo è il motivo per cui si è beccata una segnalazione all’AGICOM…

Eppure per me non c’è niente di…wow…in questo. La Queen ha fatto quello che fa da decenni.

Quello per cui tuttə si sono amareggiati sabato sera è andato in onda giorno dopo giorno per millenni, dalla carta stampata, al tubo catodico al decoder digitale come sempre tra i cori di chi “è il compito di una donna” evvabbé, lə lasciamo lì ed aspettiamo che si estinguano lentamente, chi “non la picchia mica“, chi “oh, del resto l’ha tradito“, come sempre. Tutto normale, tutto conforme.

Rispetto a sabato scorso non trovo nulla di strano in ciò che la sovrana ha fatto, lei è stata sempre esplicita a riguardo, ha contribuito sempre a coltivare la superficialità senza vergogna o mistero, e questo l’ha sempre premiata. Tuttə sogniamo che le cose siano semplici. La sovrana ha fatto diventare l’essere “una persona semplice” una cosa positiva, mentre in epoche pre-queen si diceva “è un pò una [persona] sempliciotta” con intento denigratorio perché priva di complessità.

Quello che trovo sconvolgente è che si sia dovuti arrivare all’abuso manifesto per indignarsi, e neanche troppo seriamente. Questo sì.

Però è lo stesso positivo, è lo stesso un enorme, ENORME segnale che tutto questo poco, stia accadendo. L’enorme segnale che questi tempi stanno diventando quelli di generazioni che non sono più disposte a subire in silenzio né molestie né bullismo. Quei tempi sono andati e non c’è umiliazione, non c’è disciplina, non c’è pacca sul culo o schiaffone di suore sul coppetto che ci faranno retrocedere, neanche se ce lo gridano con la bavetta bianca che si condensa ai lati delle labbra dai palazzi del Governo.

Non sarà un paese per giovani, ma non lo renderemo più un paese per bulli, questa è l’unica pacchia ad essere finita.

Insomma, l’unica cosa che davvero mi sconvolge rispetto a sabato scorso è come sempre la reazione conformista della narrazione che se ne fa dopo, una volta lasciato accadere il fattaccio con tutto il latte versato e i cocci di vetro che non hai neanche messo le ciabatte.

L’indignazione veloce degli organi di informazione, di intelletto e pensiero, di chi si fa carico e baluardo della narrazione, espressa con termini e formule canoniche, accattivanti, clickbaiting…o per dirla vintage: sensazionalismo. Invece della volontà costante, lenta e persistente, dell’attenzione, della dedizione all’ascolto, all’analisi profonda e duratura nel tempo, al prendersi il tempo giusto per formulare un pensiero complesso…all’Amore.

Quello che mi sconvolge non è la reiterazione di un comportamento vincente da parte di un’emittente televisiva che ha scientemente plasmato, senza ostacolo alcuno per decenni, la cultura del nostro paese esattamente nella direzione espressa sabato sera…vojodì…Berlusconi….

Mi sconvolge la fretta, come sempre, che non ha concesso a nessunə di sottolineare l’aggravante che in un processo probabilmente avrebbe fatto la differenza tra lavori socialmente utili o reclusione, perché non è vero per niente che la conduttrice è rimasta ferma a guardare. Non è vero per niente che non ha fatto niente. Ha fatto un’enormità ai fini della narrazione che vogliamo denudare. C’è stato un momento, che pure ha fatto il giro dei social: il momento in cui la Queen si rivolge all’abusante e lo premia. Lo compiace. Lo consola. Lo rassicura. In diretta nazionale di essere COMUNQUE un buon padre. Lei lo sa e ce lo dice. La più riconoscibile icona della televisione nazionale, con un vastissimo pubblico di adolescenti, persone cioè che attraversano la più acuta e delicata fase dell’esistenza, che assicura loro che la violenza esplicita e senza pudore di quell’uomo non lo rende inadatto ad essere padre. La Dia, sì, sì, mettiamola giù bene che dea suona sempre come una pubblicità di profumi, invece io intendo fulmini e saette, la Dia della tv nazionale che promette ai futuri padri che essere violenti con le loro compagne, non avrà significato alcuno rispetto alla loro idoneità genitoriale: PUOI ESSERE UN MARITO/COMPAGNO VIOLENTO E ALLO STESSO TEMPO UN OTTIMO PADRE.

Esattamente come l’latra figura genitoriale…lei che pure ti ha tradito e che in fondo, in questa narrazione, ti ha spinto, ti ha costretto ad essere violento. Questo significa mettere abusante e abusata sullo tesso piano.

Rassicurati misogino e violento, rassicurati futuro padre. Impara: ascoltarti e guardarti, conoscere l’espressione del tuo volto e la volontà del tuo cuore ogni volta che chiamerai la loro madre cogliona, che batterai i piedi a terra intimandole di pulire, che farai spallucce alle sue parole, che riderai del suo dolore, per i tuoi figli non significherà nulla. Ve lo assicura il volto più noto e di successo della cultura di questo paese. Sì, perché rifiuto di essere unə di quellə che sostiene che la tv non è cultura o non ne è rappresentativa.

No…le convenzioni sociali che ci siamo trascinatə dietro per millenni non hanno e non stanno funzionando. La cultura della sofferenza, del peccato, dell’omologazione, della semplicità, e della dimostrazione non sta funzionando.

Invece sta rendendo palese che dove l’aspetto fisico è l’unico canone, dove le folli ed innaturali aspettative sociali di eterosessualità, riproduttività, relazioni monogame, matrimonio, sono l’unico canone, non c’è terreno per l’educazione emotiva. Non c’è terreno per la costruzione emotiva delle identità private, singole. DIVERSE. Quelle di cui ci si può innamora per gioia, per stupore, liberamente. Non per cultura, ma per natura.

Natura, contro-natura…quanto piacciono questi termini agli inquisitori delle libertà, ai sostenitori del Dio-Patria-Famiglia, tutti costrutti sociali che mortificano natura ed istinto…ma quello che la loro cultura della sofferenza sta rendendo palese invece è che la natura ama, crea la diversità. In nessun modo la giudica, la condanna. Il loro Dio, se esiste, la ama e la crea la diversità. Che condannare lo fanno gli umani quando hanno paura di guardare a sé stessi, piuttosto, alle innumerevoli possibilità del creato…non sarebbe allora questa, la condanna della diversità, la più grande bestemmia? Il più grande peccato contro Dio?

La cultura dell’omologazione, della sofferenza e della dimostrazione sta rendendo palese che se il corpo corrisponde all’Idolo, come la statuina di una Madonna che ci basta guardarla per riconoscerne i significati, se rendiamo l’immagine infallibile, e il corpo il vascello del significato di persona e di personalità, come può poi, sul lungo termine, non essere tutto sconvolgente ciò che ci arriva dall’Altrə? Come possiamo poi, conoscendola col tempo, non incappare nel rischio che quella persona non ci piaccia, che ci faccia ribrezzo, che imparando a conoscerla davvero, non ci sia ripugnante e scateni quindi reazioni spropositate di rifiuto e violenza nel tentativo di liberarsi dalle catene dell’omologazione? Come si fa a non arrivare all’odio se tutto è meccanizzato e prestabilito: se ti DEVI sposare, se DEVI generare dei figli? Se hai un tempo massimo oltre il quale se non l’hai fatto, hai perso la partita. Hai fallito. Sei un fallimento agli occhi di tuttə. Dover dimostrare ti espone al giudizio. Dimostrare, legittima il giudizio altrui. Lo alimenta. Così corri, cerchi di fare presto, con fretta, afferri il primo, la prima che ti capita…e poi finisci in tv davanti a milioni di persone a dimostrare il tuo intimo più delicato in un’arena in cui tutto il Possibile può avere una sola ed unica forma, per tuttə. Per chiunque. E se senti qualcosa di diverso, se ti capita qualcosa di diverso. Se non stai bene e ti chiedi perché. Stai sbagliando. Stai peccando. Stai tradendo.

Ma perchè?

Sul serio…perché scegliere questa cultura oggi che abbiamo tutti i mezzi per non farlo più? Perché volerla ancora. Coltivarla. Nutrirla. Perché accettare ancora di darci in pasto?

Insomma, questo è l’augurio che ci voglio fare per questo 2023, di diseducarci a questa cultura davvero ma davvero bruttissima. E missà che ci vorrà un sacco di tempo. Di dedizione, di osservazione, di attenzione…che però sono cose che si possono fare con grande curiosità, e quindi senza paura…senza sofferenza…

Ecco, buon 2023. Buon anno nuovo. Grazie di essere qui. Si parte.

2 pensieri riguardo “2023: Pane&Parolacce

  1. Mi colpiscono sempre i tuoi articoli. Sono sapienti e sinceri, scomodi e veri. È stimolante ripensare a partire dai tuoi spunti. Grazie.

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